I colori unici di Palermo

C'è nuova squadra dopo il fallimento, ma soprattutto c'è un orgoglio da ritrovare.

Ogni tanto, quando fuori dalla Sicilia mi chiedono cosa si provi a tifare Palermo, mi collego a YouTube e scorro le immagini della finale di Coppa Italia scippata. Si trova proprio così, l’aggettivo al posto degli anni che dovrebbero identificarla e persino del tabellino, come prima veniva tramandata nella memoria non ancora digitale dei racconti di strada alla Kalsa o a Mondello, insomma in tutta la città. Come se dire cosa e quando fosse superfluo: tanto il fatto, qui, è ontologico. E comunque: era la stagione 1973/74, si giocava all’Olimpico. Noi in Serie B, il Bologna – allora una big – che soccombe nel risultato e molto di più nel gioco. Fino al minuto 89, a quel rigore decretato dall’arbitro Gonella, un signor arbitro. Eppure, si fa convincere facilmente da una simulazione di Bulgarelli. Troppo facilmente. Segna Savoldi e fa 1-1, poi i rigori in cui perderemo, dopo essere stati inizialmente in vantaggio e averci creduto di nuovo, giusto per rendere il finale più crudele. Tant’è.

A me l’apologo appare chiaro come me l’hanno spiegato, visto che non c’ero ancora. Tolto il turpiloquio: non si voleva una squadra di B a rappresentare l’Italia in Coppa della Coppe, non si voleva un successo del Sud profondo e povero e scalcinato contro una squadra del Nord, ricca e potente, e poi quel Palermo, col suo calcio totale all’olandese, giocava troppo bene per vincere – ma questa è un’altra teoria. E quindi mi appare chiara l’ingiustizia, la violenza dei poteri forti e tutto il pacchetto. Se poi l’interlocutore non è convinto, gli faccio leggere la successiva confessione di Bulgarelli, come riportata dalle cronache: «Fu una furbata, ormai la partita era finita e soltanto un calcio di rigore poteva rimetterci in corsa. Ci provai e andò bene». Verso gli uomini nessun rancore. Per dire: dieci anni dopo Bulgarelli fu pure ds del Palermo. Ma la storia, e la sua lezione, non cambiano.

Vittima può essere quindi una parola per spiegare come spesso si senta chi tifa Palermo. Solo che poi alla vittimizzazione ci si arriva presto, a pensare che quando le cose vanno male non è proprio colpa tua, o comunque non del tutto. Questa sensazione, con diverse gradazioni, la vivono indubbiamente anche altrove. E magari oggi si può essere d’accordo (spero) che il rigore su Bulgarelli non c’era. Ma arriva anche un momento in cui dire che a Bulgarelli non andava data l’occasione di crollare a terra, e che bisognava fare di più per non esporsi a quel rischio, che da che mondo è mondo chi arriva da dietro, con pochi soldi e poco blasone, deve fare più fatica. Quello è, forse, il momento in cui ridefinire anche l’identità del tifoso del Palermo: le ingiustizie ci sono, ma basta piangersi addosso. «Io questa idea dei poteri forti che ci hanno fatto perdere la finale di Coppa Italia del ’74 non l’accetto. Perché se non ci fossimo mangiati quattro o cinque gol in quella partita che abbiamo dominato, nessun rigore inventato ci avrebbe potuto togliere la vittoria. Bisogna andare oltre il vittimismo. Questa idea che il nostro destino è irredimibile, la dobbiamo superare».

Quest’estate, Dario Mirri è passato in poche settimane dall’essere un tifoso del Palermo a esserne il presidente. Imprenditore nel settore della pubblicità, ha preso in mano le macerie lasciate da Maurizio Zamparini per ricostruire la squadra, facendola ripartire dai dilettanti. Tra le altre cose, Mirri è nipote di Renzo Barbera, il Presidente: quello a cui è intitolato lo stadio, quello degli anni d’oro – e qui non si parla di risultati, visto che i migliori verranno appunto con Zamparini, prima del disastro annunciato –, quello che dopo la finale del ’74 premiò comunque i suoi calciatori come se avessero vinto. Ecco, secondo il presidente Mirri – che con un understatement un po’ enfatico preferisce dirsi «il custode di un bene collettivo», e per dimostrarlo si è tenuto il posto da abbonato tra i tifosi comuni in gradinata – prima che una squadra, a Palermo bisogna ricreare “un’identità”. Per trent’anni – ben prima di Zamparini dunque, che arrivò nel 2002 – non c’è stata secondo lui un’osmosi tra il club e la città: chi scendeva in campo non rappresentava veramente Palermo, che a sua volta ha ripagato la squadra allontanandosene, a dispetto dei grandi numeri del tifo arrivati con l’entusiasmo della Serie A: c’era infatti nelle vittorie, meno nelle sconfitte.

E soprattutto, il tifo – quel tifo – sembrava sempre pronto a farsi scivolare addosso il peso emotivo delle cose, quando non andavano più. La questione, in due parole, del doppio tifo, che a Palermo non è mai finito: me lo ricordo quand’ero bambino, nei primi anni Novanta, c’era prima e sarebbe rimasto anche dopo, quando a 8 anni, in fondo, non saresti stato costretto a sognare Van Basten o Baggio o Del Piero, perché avevi Toni, Cavani, Pastore – non certo un paragone, ma insomma non ci si doveva aggrappare alle prodezze di Barraco o ai gol di Scarafoni, come toccava a noi.

Che cosa significa allora essere tifosi del Palermo? O piuttosto, chi sono i tifosi del Palermo? «Quelli che tifano solo Palermo», mi dice Mirri, che sulla fidelizzazione sta puntando tutto: il nome stampato sul seggiolino per gli oltre diecimila abbonati in Serie D (cinque volte quelli dell’anno scorso, quando la squadra lottava per la A, e record per la categoria strappato al Parma: qualcosa deve voler dire), una polo a testa col numero di tessera ricamato e il nuovo logo – l’aquila di sempre ma con diverso design – cosicché gli abbonati si riconoscano e si facciano riconoscere, e poi forse finalmente un museo della storia del club: un modello inglese per «riavvicinare davvero i palermitani alla loro squadra». «Quando da giovane mi chiedevano per chi tifassi, e io rispondevo Palermo, mi sentivo dire: sì, ok, ma per chi tifi davvero? E io non ne potevo più», mi racconta ancora Mirri, che chissà quante volte se l’è ripetuto in testa questo discorso. Fare il presidente del Palermo dice fosse il suo sogno. Venuto, immagino, guardando da piccolo lo zio. «Il punto», ne è certo, «non è la categoria, ma l’attaccamento».

L’appartenenza, invocata da uno striscione degli ultras alla presentazione della nuova squadra. Come si crea, e perché non si sarebbe creata? Dieci anni fa, all’apice dell’era Zamparini, quando i gol e i campioni mettevano a tacere quasi tutti, l’attore palermitano Pino Caruso diceva questo: «Meglio soli e poveri che con un presidente che tratta la squadra come un supermercato». Ma non vedeva solo le colpe del “presidente-padrone”. Era immorale, pensava, che la quinta città d’Italia non riuscisse a esprimere una classe dirigente in grado di assumersi la responsabilità della squadra locale. Anche, se il caso, a un livello più basso, con meno ambizioni. Una questione di colonizzazione, e di mancanza di autodeterminazione. «Troppo spesso la nostra disposizione all’accoglienza è stata fraintesa con la sudditanza: pensano che i siciliani siano babbi. La città è stata troppo a lungo una colonia di Inter o Juve. Ora i palermitani non devono più aspettare. Dobbiamo fare da noi», seguita a dirmi il nuovo presidente nel suo discorso-manifesto. E non è chiaro se è lui che fa da megafono agli ultras o il contrario; o magari davvero si sono trovati. Del pacchetto fa parte però il fallimento: non tanto della società – a questo ci hanno già pensato quelli a cui Zamparini aveva messo in mano il destino del club, dopo aver spergiurato per anni che avrebbe venduto solo a chi offriva garanzie – ma piuttosto del progetto, degli sforzi; tra i rischi c’è quello di finire sul carro del perdente, da cui sarebbe meno facile scendere per tornare a cambiare canale. Sulle macerie si traballa, e a volte si cade.

Se c’è una cosa di cui i tifosi del Palermo possono sempre andare fieri, sono certo i colori. Perché sì, «facciamo tutto per i nostri colori», ma i colori non sono tutti uguali. Nel senso che uguali a quelli del Palermo proprio non ce ne sono. «Una storia di un’unicità», la definisce il giornalista e studioso di araldica calcistica Giovanni Tarantino, esperto della storia del club, ripercorsa proprio attraverso le sue casacche nel libro Una storia in rosa e nero (ed. Il Palindromo). Non a caso, il nuovo Palermo ha chiesto a lui di accompagnare con una descrizione le sei maglie sottoposte a un sondaggio online dei tifosi per scegliere la divisa di quest’anno. La prima cosa è sfatare le leggende sui colori stinti in lavatrice – il rossoblù dei pionieri inglesi, come quello del Genoa. Il rosa e nero del Palermo unico al mondo, almeno a livello di divisioni maggiori, è straordinariamente efficace a rivelarne l’anima. Era il 1905 quando il barone Giuseppe Airoldi scriveva questa lettera all’imprenditore e consigliere del club Giosuè Whitaker, ormai iconica eppure ignota al pubblico fino a una trentina d’anni fa: «Caro Giosuè, alcuni amici marinai mi hanno fatto osservare che i colori del Vostro Palermo sono sfruttati parecchio. Il Genova ha i Vostri, i nostri colori. Ieri, Michele Pojero era del parere di mister Blake e di Norman di cambiare il rosso e il blu in rosa e nero. Michele dice che i colori sono quelli dell’amaro e del dolce. I Vostri risultati sono alterni come un orologio svizzero. In avvenire, come raccontava Vincenzo Florio al circolo Sport Club di via Mariano Stabile, quando perdete potete bere sempre il suo amaro di colore nero, mentre il rosa potete assaporarlo nel liquore dolce. La mia salute non è più buona e i dolori della vecchiaia sono tanti, perciò affrettatevi a battere le prossime squadre».

Due anni dopo, nel 1907, il Palermo avrebbe indossato per la prima volta la casacca rosanero, quasi una sponsorizzazione ante litteram dei liquori Florio, oggi tornati alla ribalta anche nella letteratura popolare. «È incredibile quanto poco sia stata sfruttata nel tempo questa unicità a livello di marketing», riflette Tarantino, che si appiglia a una «indifferenza antropologica», frutto di secoli di delega ai dominatori della città: «Il palermitano, se gli offendi la squadra o la città, si offende e si difende. Ma poi, quando deve agire per migliorare le cose, non è altrettanto pronto». I tifosi veri, quelli che si dicono tifosi veri, ce l’hanno poi spesso con le strisciate: Juve, Inter e Milan, si intende. Perché gli altri, i tifosi a mezzo servizio, è tra quelle maglie che si vanno a rifugiare. Nel sondaggio per scegliere la nuova divisa, quelle a strisce rosa e nero – strette o larghe – sono arrivate ben lontane dalla maglia vincente, un classico rosa col nuovo logo, sullo sfondo della guerra giurata di alcuni gruppi ultras per scongiurare l’odiata distribuzione dei colori – la democrazia, del resto, ha i suoi rischi.

Eppure, in questo c’è una sindrome di debolezza, del pensiero negativo. Un complesso d’inferiorità, sviluppato magari nello sforzo di allontanare i tradimenti. Perché in realtà le strisce fanno parte a pieno titolo della storia del Palermo. Sciorina Tarantino: già negli Trenta, poi di nuovo nei Sessanta, e più di recente alla metà dei Novanta – che tutti ricordano per il Palermo dei picciotti, cioè i tanti giocatori palermitani (come l’allenatore Ignazio Arcoleo), uno dei momenti di più profonda simbiosi tra squadra e città. Strisce o no, far brillare i colori è la prima sfida per creare una «nuova generazione di tifosi», come Mirri dice di voler fare. Un vero centro sportivo, ingressi a un euro per gli under 18 allo stadio, i giocatori nelle scuole. E poi la trasparenza dei bilanci e l’azionariato popolare. Nel programma c’è pure il rilancio del brand all’estero, dove secondo il vicepresidente italo-americano Tony Di Piazza «ci sono più tifosi del Palermo che di qualsiasi altra squadra italiana, con milioni di siciliani di terza e quarta generazione». Un calcio che non sia più solo moneta di scambio tra grandi campioni da ammirare e plusvalenze (più o meno vere) da mettere a bilancio.

Quanti siano ora i veri tifosi del Palermo, in una città di 700mila abitanti baricentro di una regione di 5 milioni, resta materia di speculazione. Tra i 10 e i 15mila, stima per esempio Tarantino. Che in una serata di fine agosto, andando a vedere la partita con le vecchie glorie organizzata per presentare la nuova squadra – ottima risposta, ventimila sugli spalti per ammirare di nuovo Toni e Miccoli contro i nuovi bomber (si spera) dei dilettanti – nel viale che porta allo stadio mi racconta di essersi imbattuto in un padre con i suoi due figli, dieci anni circa. Andavano in direzione contraria, per nulla ostinati, sorridendo felici dopo quattro calci a un pallone in un tramonto d’estate nel parco adiacente il Barbera. Tutti e tre indossavano la maglia della Juve, e all’amichevole a cui molti in futuro si vanteranno d’essere stati – come in queste settimane tanti si ricordavano sugli spalti nell’87 per la partita con l’Atlético Mineiro, la prima dopo un altro fallimento – non sembravano affatto interessati. Nessuno però s’è stupito di loro. Poi, in un’altra notte di rinascita – che significa che si era morti, ma pure che non ci si arrende – la gente di Palermo è tornata nel suo stadio. Irredimibile, forse illusa. Quella notte, comunque felice.

Dal numero 30 di Undici