Riassunto in 10 punti di questi ultimi anni Dieci

Cosa ci lascia questo decennio di calcio: dai miracoli di squadre sconosciute ed esaltanti alle interminabili dinastie nazionali, a un'Europa sempre più vorace nel mondo.

Scommessa da verificare sui futuri libri di storia del calcio. Nel capitolo sugli anni ‘10 si parlerà, più o meno nell’ordine, di 1) Messi e Ronaldo, 2) Europa dominante, 3) Financial Fair Play, 4) Pep Guardiola, 5) Il miracolo del Leicester, 6) Il declino del Milan, 7) Il derby madrileno Simeone-Zidane, 8) Jurgen Klopp. Vediamo perché.

Se il decennio del tennis ha registrato l’ascesa di Novak Djokovic, che nell’immaginario collettivo resta il terzo incomodo ma negli anni 10 ha vinto più Slam di tutti, nel calcio nessuno ha saputo inserirsi nella stellare competizione tra Leo Messi e Cristiano Ronaldo. Non c’è riuscito Neymar, il candidato più atteso, non ce l’ha fatta Ibrahimovic, l’unico col carisma adeguato, e l’ottimo Modric pare aver pagato l’impresa di aver spezzato l’interminabile sequela di Palloni d’oro della diarchia scomparendo letteralmente di scena, quasi fosse colpevole di doppio regicidio. La verità è che non c’era mai stata una rivalità paragonabile: stesso ruolo, stesso campionato (fino all’anno scorso), stessa intensità, perfino stessa qualità – altissima – dei compagni. Anche il braccio di ferro tra Cruijff e Beckenbauer fu speciale (barzelletta dell’epoca: il giorno del giudizio universale Beckenbauer si presenta alle porte del Paradiso, dove San Pietro gli chiede chi sia. «Sono il miglior calciatore del mondo!», risponde il Kaiser. E San Pietro: «Ah, entra pure Cruijff, ti aspettavamo»), ma non così speciale sia perché giocavano uno in attacco e l’altro in difesa, sia perché non si incrociavano mai, in gare ufficiali una volta alla finale mondiale e una in un quarto di Coppa Campioni. Messi e Ronaldo invece si sono guardati negli occhi un’infinità di notti, e chi ha abbassato lo sguardo alla fine l’ha fatto per cercare lì, nell’erba umida del Camp Nou o del Bernabeu, la chiave per prendersi la rivincita la volta successiva. Insieme hanno personificato il claim citato da Mauro Berruto in coda al suo Capolavori: «Siate felici se i vostri avversari sono difficili da battere». Perché vi costringeranno a dare il meglio, come aveva già detto Kipling.

Messi e Ronaldo si sono affrontati 31 volte in partite ufficiali negli anni Dieci, tra squadre di club e Nazionali maggiori: 14 vittorie per l’argentino, nove per il portoghese e otto pareggi (Alex Caparros/Getty Images)

Veniamo ora al discorso Nazionali (e continenti). Fra il 1986 e il 2002 corrono cinque finali mondiali, tutte rigorosamente Europa-Sudamerica. Dal 2006 al 2018 i Mondiali sono quattro e il saldo delle finaliste è 7-1 per l’Europa. Qualcosa è visibilmente cambiato ed è un altro 7-1 a rappresentarlo, l’umiliante punteggio della semifinale del 2014 fra Germania e Brasile, il sacco di Belo Horizonte che lasciò affranto un popolo. La sera dopo l’Argentina prevalse solo ai rigori sull’Olanda: fosse andata al contrario, il Sudamerica sarebbe assente da una finale mondiale da Yokohama 2002.

Perché l’Europa ha preso il sopravvento? Perché ha creato la Champions League, il torneo più bello e ricco, un altoforno di talenti che arrivano da tutto il mondo sempre più giovani, saltando i vecchi passaggi (Romario e Ronaldo Nazario si “scaldarono” a Eindhoven prima di andare al Barcellona) per entrare subito nello star-system europeo. È un metodo che esalta i più forti, anche caratterialmente, deprimendo chi è meno solido. Mezzo decennio sudamericano è stato dominato dai cileni, capaci in due finali consecutive di Copa América di trascinare Messi ai rigori e lì beffarlo. Con Vidal, Sánchez e Medel, pellacce da stadio più che grandi campioni.

L’Europa degli anni ‘10 è stata governata (anche) dal Fair play finanziario. Scudetti nel decennio: Juventus e Bayern 8 su 10, Barcellona 7, Psg 6 (su 7, la proprietà pre-Qatar non era certo competitiva). Un campionato vero e proprio – di quelli che più squadre possono vincere – esiste solo in Inghilterra, e pure in Premier i 4 titoli del Manchester City, gli ultimi due consecutivi, segnalano una tendenza. La responsabilità di tornei nazionali così scontati attiene appunto al Ffp, il sistema di regole economiche che ha drasticamente tagliato il debito complessivo dei club europei – effetto positivo – ma ha anche impedito alle società distanziate di intervenire finanziariamente per colmare il gap, e quindi competere. La Champions ha fatto il resto, producendo utili in misura imponente ma ridistribuendoli nel solito circuito ristretto. Addirittura il cosiddetto market pool – il sistema di divisione degli introiti tv – spinge i club a gufare le squadre connazionali, perché la torta per Paese è quella e in meno si divide meglio è. Il risultato, sul quale prima o poi si dovrà ragionare, è che vincono sempre gli stessi, i club nelle cui casse affluiscono fiumi di denaro grazie alla posizione (dominante) conquistata.

Nella stagione 2018/19, il Manchester City di Pep Guardiola è stata la prima squadra inglese a completare il Treble domestico, cioè la vittoria di Premier League, Fa Cup e League Cup (Michael Regan/Getty Images)

Passando alle panchine, l’opinione relativamente comune è che Pep Guardiola sia il miglior allenatore di quest’epoca, e forse della storia. Da Barcellona a Monaco a Manchester, ha costruito meccanismi di precisione simili nei principi del gioco associativo ma profondamente diversi nei punti d’arrivo. Il Barcellona era il tiqui-taca, possesso palla snervante e orizzontale che preparava con pazienza lo smarcamento letale di Messi; al Bayern ha aggiunto la potenza tedesca e l’innovazione tattica dei terzini che “entrano” in campo lasciando semmai le fasce alle mezzali; al City, infine, Pep si è lasciato sedurre dalla velocità vertiginosa del calcio inglese, organizzando il palleggio in senso più verticale e puntando forte sul talento dinamico di Sterling. Ha vinto campionati ovunque e a frequenza spaventosa (3 su 4 al Barça, 3 su 3 al Bayern, 2 su 3 al City), ma il fatto che dal 2011 non riesca più ad andare in finale di Champions nutre una pletora di haters che continuano a considerarlo un miracolato da Leo Messi. Il mondo è bello perché è vario.

Se lo scenario è sempre più prevedibile, però, abbiamo anche assistito alla storia del secolo. Il Leicester 2015/16 nasce indiziato di retrocessione, ingaggia un allenatore italiano non più giovane e che non ha mai vinto niente di che, può contare in sostanza su tre soli giocatori di livello (Mahrez, Kante e Vardy), eppure settimana dopo settimana la sua favola si gonfia come la famosa rana. Scoppierà, pensano tutti. Beh, non succede. Ranieri sfrutta da maestro la chance della vita, tiene fermo il timone fino alle ultime rapide, trionfa in una Premier incredula e innamorata.

Dalla favola all’incubo. Il club più nobile è il Real Madrid, con 13 fra coppe dei Campioni e Champions League. Terzo in classifica è il Liverpool, che con la vittoria di giugno è salito a quota 6. Barcellona e Bayern ne hanno vinte 5, l’Ajax si è fermato a 4. Dite che manca qualcosa? Certo, alla Champions moderna manca il Milan. Manca il club che pur avendo in bacheca la bellezza di 7 coppe “dalle grandi orecchie”, negli ultimi dieci anni prima è stato lasciato deperire da Berlusconi, poi è passato a una proprietà cinese evidentemente farlocca, e ora è nelle mani di un fondo americano i cui obiettivi – al di là della costruzione di uno stadio nuovo in tandem con l’Inter – restano imperscrutabili. Il Milan. La seconda squadra più nobile d’Europa.

Da Milano a Madrid. Nel corso del decennio soltanto Zinedine Zidane ha vinto più di una Champions (tre consecutive per essere precisi): eppure continuiamo a diffidare del suo talento, convinti che il filotto si spieghi meglio con la qualità della rosa del Real, a partire da Cristiano Ronaldo. Non a caso, andato via lui la squadra si è afflosciata. Ben altra credibilità accordiamo a Diego Simeone, che ha riscattato la metà (non più) sofferente di Madrid portandola a vincere due Europa League, due Supercoppe e addirittura una Liga, e a perdere due finali di Champions in modo rocambolesco. Zidane ha dato respiro ai suoi fuoriclasse, Simeone ha stretto i suoi ottimi giocatori (più Griezmann, che è altra cosa) in un ferreo patto tattico e soprattutto umano.

Dopo il Mondiale per club, il primo alloro intercontinentale della storia del Liverpool, Klopp è arrivato all’ottavo titolo conquistato negli anni Dieci: cinque col Dortmund, tre con i Reds (Paul Ellis/AFP via Getty Images)

Ma il mio preferito è un altro, perché mi entusiasma la sua attitudine. L’allenatore che ride è l’autentico ponte che gli anni ‘10 lanciano verso il futuro. In un mondo sempre più serioso e immusonito, con tecnici talmente fracassati dallo stress da perdere i pochi capelli non precocemente imbiancati, Jürgen Klopp è il prototipo dell’uomo nuovo, l’allenatore che sbraita e si dimena come e più degli altri, ma gode in maniera evidente della vita che conduce, e soprattutto della squadra – il suo magnifico Liverpool – con cui è andato all’assalto delle altre corazzate, vincendole. La speranza è che anche stavolta il numero uno venga copiato.

Dal numero 31 di Undici