Il 5-0 subìto a Bergamo contro l’Atalanta ha concluso nel peggiore dei modi gli anni Dieci del Milan, quasi come a voler suggellare due lustri da incubo. A eccezione della gloriosa storia, proprio l’Atalanta dovrebbe essere un esempio per il Milan, nel senso che a Bergamo hanno tutto che sembra mancare alla società rossonera: le idee chiare, una sintonia perfetta tra proprietà, dirigenti e staff tecnico, un allenatore giusto e un gruppo di giocatori motivati. Il campo ha dimostrato come in questo momento storico le due squadre siano distanti anni luce, nonostante l’anno scorso siano arrivate a fine campionato separate da un solo, decisivo punto.
Dopo la qualificazione Champions sfumata all’ultima giornata della Serie A 2018/19, per i rossoneri questa doveva essere la stagione giusta (l’ennesima) per ripartire e tornare tra le prime quattro, con un nuovo progetto tecnico improntato su un’idea di gioco chiara e su un gruppo di giocatori giovani. E invece, nonostante non sia ancora finito il girone d’andata, i numeri in campionato hanno già il sapore del fallimento: otto sconfitte in 17 partite, praticamente una ogni due; distacco record dall’Inter (-21 punti) e zona Champions lontana 14 lunghezze (mentre la zona retrocessione è soli sette punti più giù dalla squadra di Pioli); 16 gol fatti e 24 subiti in Serie A; 1,24 punti di media a partita. Il problema è che la luce in fondo a questo tunnel fatica a vedersi, e i tifosi sembrano ormai rassegnati a vedere Milanello risucchiata da una sorta di legge di Murphy applicata al calcio.
Le origini del male
Non è possibile individuare un singolo evento capace di determinare la caduta del Milan, nonostante esistano diverse sliding doors nella recente storia rossonera: sul mercato, qualcuno fa partire l’era del disastro dal mancato rinnovo di contratto a Pirlo (poi accasatosi alla Juve) e/o dalla decisione di non cedere Pato per acquistare Tévez; in campo, il gol annullato a Muntari nel pareggio a San Siro con la Juve, poi campione d’Italia 2012, oppure il palo di Niang al Camp Nou nella Champions 2012/13, che avrebbe probabilmente portato un Milan comunque ridimensionato tra le prime otto d’Europa. In realtà i problemi iniziano ancora prima, il prologo risale ai giorni successivi al 23 maggio 2007, quando la dirigenza piena di gioia e (giusta) gratitudine per la squadra capace di vincere la Champions League, la settima della storia del Milan, non ha portato a termine il ricambio di una rosa ormai vecchia. Nella finale di Atene, contro il Liverpool, gli undici titolari scelti da Ancelotti avevano 30,67 anni di media. I senatori di quella squadra sono rimasti al Milan per almeno altre tre stagioni, e a loro si sono aggiunti Shevchenko (di ritorno dal Chelsea), Ronaldinho, Beckham e altri giocatori capaci di illuminare San Siro per qualche partita, ma non di guidare la transizione verso un nuovo ciclo vincente. Subito dopo c’è stato il biennio di Ibrahimovic, quello dell’ultimo scudetto, ma a quel punto il modello di business non era più sostenibile, e oltretutto era avverso alle regole dell’Uefa sul Fair Play finanziario.
Da quel punto in poi, sono stati sommati evidenti errori di gestione, a livello sia societario che sportivo. Poi il club è stato venduto allo sconosciuto magnate cinese Yonhong Li, un’operazione che ha finito per rivelarsi fallimentare, con il conseguente passaggio delle quote al fondo Elliott e un ulteriore aumento del rosso in bilancio. In mezzo, ci sono stati due tentativi di costruire il nuovo stadio, uno (il progetto nell’area del Portello) fallito, e l’altro ancora in una complicata fase di gestazione. La confusione nei quadri dirigenziali ha determinato (e alimentato) la crisi sul campo: si sono alternati nove allenatori, nessuno dei quali ha mai avuto l’occasione di rimanere almeno due stagioni intere sulla panchina rossonera per provare a costruire qualcosa che durasse nel tempo. Le operazioni di calciomercato convincenti sono state poche: quasi tutti i calciatori si sono svalutati tecnicamente ed economicamente quando hanno indossato la maglia rossonera, trasformatosi da squadra ambitissima ad ambiente pessimo in cui crescere ed esprimersi, capace di togliere il talento e la voglia di giocare a calcio anche a un protagonista assoluto dell’ultimo decennio calcistico italiano come Gonzalo Higuaín.
Il fallimentare mercato rossonero
Il giorno del 120esimo anniversario della nascita del Milan, l’attuale Chief football officer della società rossonera, Zvonimir Boban, ha detto che per tornare a vedere la squadra vincere in Italia e in Europa «ci vuole tanto tempo». E che «bisogna spendere tanti, tanti soldi». Nella sua prospettiva di dirigente arrivato al Milan da nemmeno un anno, sembrano due condizioni sensate, ovvie quasi. Ma basta guardare lo storico dei piazzamenti rossoneri in Serie A negli ultimi sei anni (ottavo, decimo, settimo, sesto, sesto, quinto), per capire che il Milan, di tempo, ne ha sprecato fin troppo. Quanto al secondo punto evidenziato da Boban, quello dei soldi, in questo periodo di insuccessi il Milan ha speso tantissimo. Solo negli ultimi tre anni, i rossoneri sono ottavi in Europa per denaro speso nel calciomercato, e secondi per saldo negativo tra acquisti e cessioni (-325,17 milioni per Transfermarkt, dietro al City primo con -349,64).
Allargando un po’ lo sguardo, dalla stagione 2012/2013, quella successiva alla cessione di Thiago Silva e Ibrahimovic, e agli addii di Seedorf, Gattuso, Inzaghi e Nesta, il Milan ha investito 716,40 milioni nell’acquisto di nuovi calciatori, con 381,69 milioni di passivo. Nello stesso intervallo di tempo, il Liverpool ha speso 853 milioni, ma con miglior saldo rispetto ai rossoneri (-257,66 milioni). Eppure i Reds sono campioni d’Europa e del Mondo e stanno dominando la Premier, mentre il Milan si trova solamente sette punti sopra la zona retrocessione.
Nell’estate del 2017, per esempio, si manifesta al grado più alto quel morbo che ha avvilito il Milan degli anni Dieci. Fassone e Mirabelli spendono 194 milioni nella sola sessione estiva (al netto dei riscatti obbligatori rimandati all’anno successivo), solo che lo fanno senza criterio, costruiscono una squadra incompleta e disorganica. I dirigenti rossoneri, forse, pensarono che sarebbe bastato comprare i giocatori dell’Atalanta per importare il modello del club bergamasco. E invece Kessié e Conti (quest’ultimo anche per i problemi fisici), lontani dall’organizzazione e dal sistema di Gasperini, si sono rivelati due giocatori normali, mentre Pasalic, che nel caos rossonero faticava a imporsi – al netto del rigore decisivo in Supercoppa –, all’Atalanta è diventato un centrocampista con caratteristiche quasi uniche per la Serie A. Oltre a quelli arrivati da Bergamo, sono troppi i giocatori sbarcati a Milanello due anni fa con un certo status e incapaci di migliorarsi – o almeno di mantenere le promesse – per non pensare che ci sia qualcosa che non funziona a livello di sistema. Calhanoglu in Germania era un trequartista intenso e caotico, uno specialista nel tiro dalla distanza, mentre in Serie A ha mostrato solo sporadicamente le sue doti; Bonucci, titolare della Juventus e della Nazionale italiana da dieci anni, ha faticato a giocare al centro della difesa rossonera e a imporsi come leader nello spogliatoio; lo stesso discorso vale per Higuaín, schiacciato dalle aspettative e indispettito da un supporting cast non all’altezza, e per Lucas Biglia, assoluto dominatore di centrocampo alla Lazio e giocatore smarrito in rossonero.
Ma cosa succede ai giocatori quando arrivano al Milan? Dall’esterno si fa fatica a capire quale virus abbia infettato Milanello, ma almeno tre componenti sono evidenti: un ambiente depresso da anni di insuccessi, e quindi negativo a livello mentale; gli equivoci tattici (giocatori schierati fuori ruolo o acquistati anche se non funzionali al gioco dell’allenatore); aspettative troppo alte, fuori scala per il reale valore della rosa. Un esempio chiaro di cattiva gestione risale agli ultimi dieci giorni dello scorso agosto, quando il Milan sta inseguendo Ángel Correa dell’Atlético Madrid, individuato da dirigenti e allenatore come trequartista ideale per il 4-3-1-2 di Giampaolo – nonostante l’argentino giochi (poco) da anni come esterno nel 4-4-2 di Simeone (primo equivoco tattico). A Casa Milan sono ottimisti sul suo arrivo, nonostante i Colchoneros chiedano quaranta milioni e il club rossonero sia sotto la lente d’ingrandimento della Uefa. Nel frattempo la squadra affidata a Giampaolo – che a detta di dirigenza e allenatore punta decisamente al quarto posto (ecco le eccessive aspettative) – esordisce a Udine perdendo 1-0 senza mai tirare in porta, e Giampaolo, in accordo con Maldini e Boban (o forse su loro pressione), sconfessa due mesi di lavoro estivo per passare al 4-3-3 sin dalla partita successiva, in casa contro il Brescia (un’altra situazione ambigua). Arrivati agli ultimi giorni di agosto, gli uomini mercato del Milan non sono ancora riusciti a piazzare André Silva, che porterebbe cash da reinvestire, ragion per cui la pista Correa tramonta (altre aspettative non rispettate). Per rimediare, all’ultimo giorno di mercato viene improvvisato uno scambio di prestiti tra il portoghese e Ante Rebic con l’Eintracht Francoforte.
Al netto delle valutazioni individuali sul giocatore, l’arrivo di Rebic è l’emblema della mancanza di programmazione rossonera. Giampaolo, che nel precampionato ha sbagliato a ritenere Suso adatto a giocare sulla trequarti e lo ha presto spostato di nuovo a destra, si ritrova con un calciatore che gioca nello stesso ruolo dello spagnolo, quindi un doppione, e inoltre con caratteristiche tecniche lontanissime dal modo di giocare del tecnico ex Sampdoria (un altro equivoco). E infatti Rebic, che pure ha giocato un Mondiale da titolare e da protagonista con la Croazia, arrivando fino alla finale, al Milan finora è sembrato totalmente un pesce fuor d’acqua.
La società
Il Milan dell’ultimo ciclo vincente, quello di Ancelotti, aveva una catena di comando chiara e definita: c’era il presidente Berlusconi che, al netto delle estemporanee intrusioni tattiche, si occupava di mettere i soldi; poi c’erano l’amministratore delegato Adriano Galliani e il direttore sportivo Ariedo Braida. Dall’addio di quest’ultimo, invece, la situazione dirigenziale ha cominciato a farsi nebulosa. Berlusconi ha imposto come a.d. la figlia Barbara, generando confusione e sovrapposizione tra lei e Galliani, che infatti nel 2013 ha dato le dimissioni, salvo poi ritirarle e rimanere al Milan fino al termine dell’era Berlusconi.
Dal suo arrivo, il fondo Elliott (proprietario del club, ma nessuno ha ancora capito se con intenzione di rimanerci a lungo termine o di rivalutare e rivendere in tempi brevi) ha cambiato due team dirigenziali in due anni, combinando bandiere rossonere come Maldini e Boban, manager esperti come Gazidis e un altro milanista doc come Leonardo. Come scrive Calcio e Finanza, l’anno scorso Gazidis, Leonardo, Maldini e il presidente Scaroni percepivano in tutto dieci milioni di euro lordi di stipendio, con l’ex Arsenal pagato quasi quattro milioni l’anno. Quest’anno se n’è andato Leonardo, ma al libro paga del Milan si sono aggiunti Boban e Massara, oltre ai due tecnici Giampaolo e Pioli. E meno male che Gattuso ha deciso di rinunciare ai circa 3 milioni che gli spettavano, visto che la scorsa estate il Milan ha versato pure 4 milioni di buonuscita all’ex a.d. Marco Fassone, al termine di una disputa giudiziaria.
Si tratta nel complesso di una spesa altissima per una dirigenza che, invece, è inesperta soprattutto nella parte tecnica (Maldini e Boban sono alla loro prima esperienza) e non riesce a determinare una catena di comando chiara, perché ci sono troppe teste pensanti (e pagate). In molti, nonostante la riconoscenza per due indimenticabili campioni, chiedono il licenziamento di Maldini e Boban, non rendendosi tuttavia conto che ricominciare un progetto tecnico ex novo ogni anno non sia una strategia che porta a buoni risultati. Pure Ivan Gazidis è stato investito dalle critiche: anche a causa dei risultati scadenti sul campo, finora non sta ottenendo grandi vittorie sul fronte dei ricavi (il Milan ha 146 milioni di rosso in bilancio nel 2019). Adidas e Audi hanno lasciato i colori rossoneri, e a giugno 2020 scade il contratto con il main sponsor Emirates: il rinnovo con il partner di Dubai diventa quindi fondamentale sia per il Milan che per Gazidis.
Anche il ritorno di Ibrahimovic è un’operazione che va analizzata da diverse angolazioni. Il 26 dicembre scorso, lo svedese ha firmato con il Milan per sei mesi, con opzione per un altro anno di contratto. Certo, Ibra aggiungerà qualità e personalità a un attacco da 0,94 gol a partita, in cui le punte di ruolo hanno segnato solamente una rete a testa su azione in diciassette partite stagionali, però il suo ingaggio appesantirà ulteriormente un bilancio già deficitario, e difficilmente porterà qualcosa in più di una una qualificazione in Europa League. Magari la sua presenza riuscirà a cancellare il tetro senso di sconfitta ineluttabile che da anni accompagna la squadra rossonera – si pensi agli ultimi derby o soprattutto alle trasferte a Torino con la Juventus, dall’inaugurazione dello Stadium i rossoneri non hanno mai neanche pareggiato in casa dei bianconeri –, ma allo stesso tempo parliamo comunque di un giocatore di 38 anni reduce da un biennio in un campionato di secondo piano come la Mls. E che resta, in ogni caso, il miglior attaccante del Milan negli anni Dieci (42 gol segnati dal 2010 al 2012). Nessuno, dopo di lui, è riuscito ad avvicinarsi a questa cifra. E il fatto che sia dovuto tornare lui è un fatto che va oltre i sospetti, che certifica un fatto: ai rossoneri mancano soprattutto programmazione, pazienza e unità d’intenti.