Questi dieci anni pieni di Messi, pieni di Ronaldo

Una rivalità che ha segnato il decennio, e che poteva esistere soltanto in questa epoca.

È il duopolio che più di ogni altro evento calcistico ha segnato questo decennio, una serie fatta di nove Palloni d’oro divisi quasi perfettamente per due, ma è anche un duopolio che con tutta probabilità continuerà nel decennio successivo e che nasce in realtà in quello precedente. Come il mondo del tennis con il triumvirato tennistico Federer-Nadal-Djokovic, quello del calcio non sa ancora trovare alternative alla grazia morbida di Lionel Messi o alla danza di accelerazioni di Cristiano Ronaldo (e il Pallone d’Oro 2019 l’ha dimostrato), ma la gara a chi è più forte rischia di rovinare l’eredità, naturalmente sminuendola, di due tra i giocatori più straordinari e incredibili apparsi nella storia di ogni sport. Si usano spesso, in quest’epoca di hype quotidiano, termini simili alla leggera: tutto è straordinario, tutto è incredibile. Non se usati con riferimento Messi e Ronaldo, due che sono, semplicemente, fuori dall’ordinario, due che fanno cose a cui è difficile credere.

La domanda nasce quindi oltre dieci anni fa, così come il primo Pallone d’Oro di quei due, e già nel 2009 c’è l’occasione per una primissima resa dei conti. Come un’esibizione gladiatoria delle più speciali, Barcellona e Manchester United devono giocarsi la finale di Champions League all’Olimpico di Roma, e il New York Times, il 26 maggio, titola ingenuamente: «La finale di Champions League potrebbe risolvere il dibattito Ronaldo-Messi». Finirà 2-0 per il Barça, Messi segnerà di testa il secondo gol e, poco dopo, vincerà il primo Pallone d’Oro della sua carriera. Dopo il primo gol del Barça, segnato da Eto’o, le telecamere inquadrano Cristiano Ronaldo, già titolare di un Ballon d’Or, che con la faccia già uguale a oggi dice ai compagni è tutto ok, è tutto ok, calma, calma. Tirerà poi da ogni posizione, sfiorerà il palo, provocherà numerosi uuuuh! da parte dei quasi centomila quella notte all’Olimpico, a volte si intestardirà in dribbling che lo porteranno soltanto, infine, a perdere palla. Qualche mese prima, intervistato da un quotidiano brasiliano su chi fossero i tre migliori giocatori del mondo, aveva risposto: «Io sono il primo, il secondo e il terzo». In una notte romana sta invece assistendo, dal vivo, alla concretizzazione del primo Pallone d’Oro di quello che dovrà essere il suo rivale per tutta la carriera.

Fa uno strano effetto rileggere oggi gli articoli di inizio decennio, anzi, di metà 2009: un po’ c’entra il gusto del giornalismo anglosassone per il non dare nulla per scontato, un po’ eravamo davvero e a tutti gli effetti all’inizio di un fenomeno che nessuno poteva immaginare di tale portata, e così leggiamo di un Messi 21enne che mostra «un’ostentazione di giovinezza» nei capelli lunghi che toccano le spalle, e poi il rosario della sua infanzia, delle cure ormonali, del Barcellona che lo accoglie come una chiesa… È la nascita della leggenda: se si trattava di normale giornalismo all’epoca, oggi le stesse frasi si leggono come vite dei santi.

Messi vince il Pallone d’Oro anche l’anno seguente, quello dopo ancora, e ancora nel 2012. Sono quattro Palloni d’oro a uno, sono soprattutto quattro consecutivi. Il Barcellona di Messi vincerà un’altra Champions League, il Real Madrid soltanto una Liga. All’alba del 2013, Messi ha fatto la storia del calcio, e Cristiano Ronaldo è un ottimo giocatore. Nei successivi cinque anni cambia però tutto, cambia anche il modo di giocare di Ronaldo e di sicuro il modo di vincere, un’ossessione che si gonfia ancora di più per il gap da colmare con Messi. L’immagine che lo mostra meglio è carica di grottesco, di vergüenza ajena, come dicono in Spagna, o di secondhand embarassment: è Cristiano Ronaldo che segna su rigore il gol del 4-1 all’ultimo minuto disponibile, e si toglie la maglia e sotto uno spicchio di curva di tifosi del Madrid si mette in posa da culturista, tendendo tutti i tesissimi muscoli del tronco e urlando con un’espressione di estasi o forse pazzia. Il Madrid vincerà quattro Champions League in cinque anni, Ronaldo pure – l’altra Champions la vince il Barcellona, e Messi il conseguente Pallone d’Oro. Siamo cinque a cinque, e dieci anni sono passati dall’inizio del dualismo.

Sono molte, in apparenza, le cose che dividono Messi e Ronaldo, e che possono facilmente far immaginare un mondo con caratteristiche messiane che non incontrerà mai tratti in comune con il mondo con caratteristiche ronaldiane. A partire dai luoghi di provenienza: Madeira è un’isola in mezzo all’Oceano, una patria dentro la patria, tutta dedicata a Cristiano. Aeroporto, busto, un museo pieno di statue di cera che raffigurano il dio locale con le maglie dei suoi successi più importanti, e che comprende anche una sezione di lettere di fan di ogni parte del mondo, un reliquiario in una regione devota a un culto laico e personalissimo. Messi è invece di Rosario, centro dell’Argentina nemmeno bagnato dal mare, Paese grande e quasi subcontinente, troppo sterminato per poter essere casa per uno con il suo carattere – «Il carattere argentino… Messi semplicemente non ce l’ha», disse nel 2018 a Espn la giornalista connazionale Cecilia Guardati.

Nel 2012, Lionel Messi disintegra il record di reti realizzate in un anno solare: sono 91, con le maglie del Barcellona e della Nazionale argentina. Nel 2017, decide il Clásico del Bernabéu con un gol nei minuti di recupero e mostra la maglia ai tifosi del Real (Oscar Del Pozo/AFP via Getty Images)

Nonostante questo, il dualismo non è mai sfociato in aperta rivalità: Messi è sempre parso ignorare il portoghese, mentre Ronaldo si è lasciato andare a sporadici fastidii contro l’argentino, colpevole però più che altro di essere la variabile stocastica in una carriera altrimenti studiata come un piano perfetto. Il loro non è un uno-contro-uno costruito su uno scontro caratteriale o umano ma sempre frontale, insulti molto poco nascosti, provocazioni a distanza, come quelle di Maradona contro Pelé e di Pelé contro Maradona. E quindi è una rivalità-non-rivalità che si fonda quasi esclusivamente sul campo, sulle statistiche, sulle cose fatte anziché su quelle dette.

Lionel Messi e Cristiano Ronaldo sono campioni perfetti per il calcio contemporaneo anche perché il calcio contemporaneo è fatto di highlights: i giocatori più prolifici di sempre sono giustamente protagonisti nell’epoca della riproducibilità ubiqua di ogni loro gesto. Il primo gol di Messi con la maglia del Barcellona risale al 2005, lo stesso anno in cui nasce Youtube. E così non serve altro che il campo per creare una rivalità dove una rivalità vera, di quelle fatte di cattiveria, sembra non esserci: ogni dribbling, assist, parabola morbida di Messi, e ogni scatto, addominale, colpo da biliardo di Cristiano saranno in pochi secondi su internet, Instagram, Twitter, TikTok, Streamable, Reddit, in formato video, in formato gif, per essere visto ovunque, per non scomparire mai. Di questa onnipresenza delle gesta del pretendente al trono si alimenta la crescita costante dell’uno e dell’altro, come due conifere che, piantate a poca distanza l’una dall’altra in un bosco, cresceranno più velocemente di un albero solitario per vincere la gara a chi si avvicina di più alla luce diretta.

Cristiano Ronaldo ha fatto segnare la media di 1,08 gol per partita di Liga con la maglia del Real Madrid: il suo score è di 311 reti in 292 presenze nel massimo campionato spagnolo (Oscar Del Pozo/AFP via Getty Images)

È anche curioso della rivalità, e particolare di entrambi, che nessuno sia interprete di un calcio “gioioso”: felice da vedere e da interpretare sul campo forse, vincente certo, ma non leggero né spensierato, come se ognuno fosse inseguito da un’ombra. Quella dell’ambizione per entrambi, quella di Maradona per Messi, quella di se stesso per Ronaldo, soprattutto, per quanto possano non ammetterlo, quella dell’altro per entrambi. Messi e Ronaldo potevano esistere quindi soltanto insieme? Probabilmente sì, e sono preziosi anche perché due così non esisteranno mai più, e non soltanto in tema di potenzialità sportive: Messi, figlio di un’addetta alle pulizie e di un operaio, cresce in calle Estado de Israel, periferia di Rosario, a pochi metri da uno spiazzo erboso in cui inizia a giocare a calcio. Cristiano anche cresce per strada, nelle terrazze di Funchal, in Quinta de Falcão dietro le vigne e le palme e l’esuberanza tropicale.

I giocatori della Generazione Z che sbocceranno nella terza decade del 2000 sono invece figli di un calcio fatto di accademie da piccolissimi, protetti e indirizzati già da infanti. Tra poco dovremo anche pensare al loro tramonto, senza dover rispondere per forza alla domanda su chi è il più forte. Ci sono domande più impellenti: chi si ritirerà invece prima? E cosa farà, l’altro, senza il concime dell’avversario? Si lascerà appassire, come certi amori vecchissimi che non sopravvivono alla scomparsa del partner? È presto per immaginarlo ma sarà diverso, questo vecchio calcio, dopo il decennio di Messi e di Ronaldo.

Da Undici n° 31