Finalmente abbiamo capito Rodrigo de Paul

Si è definito come centrocampista, così ha preso in mano l'Udinese e la sua carriera.

Per un calciatore di alto livello, trovare il posto in campo significa trovare il posto nel mondo, e Rodrigo de Paul ci ha messo un po’ più del solito. Per tutti, l’argentino era un giocatore con un grande talento ma al tempo stesso non ancora definito, un elemento che, appunto, faceva fatica a trovare il suo posto in campo – una cosa che, oggi, vuol dire collocarsi rispetto ai suoi colleghi, posizionare il proprio brand, come si dice oggi in maniera pregnante, non impropria.

È facile cadere nella trappola per cui questa indeterminatezza sul campo coincide con l’indolenza tecnica, tattica addirittura umana e professionale, come se la vita privata di un calciatore professionista debba necessariamente essere l’estensione esatta di ciò che noi vediamo, o vogliamo vedere, durante le partite. Partendo da questi presupposti, Rodrigo de Paul era un elemento di grande qualità che però non voleva imporsi, che non sapeva farlo, uno bravo a mettersi qualche volta al centro dell’azione e dell’attenzione ma che poi tendeva a ritrarsi, come ogni giocatore percepito ed etichettato come talento estemporaneo. In realtà siamo noi che viviamo di queste astrazioni, di queste semplificazioni, la situazione di de Paul era più complessa ma anche più facile da risolvere: non era ancora stato messo davvero al centro dell’azione, non era stato schierato a centrocampo, era stato sempre visto e utilizzato come un calciatore solamente creativo e solamente offensivo. Oggi, invece, sappiamo che de Paul ama governare e determinare il gioco in tutti i suoi aspetti, ama essere creativo non solo in funzione del gol o dell’ultimo passaggio.

La conversione in centrocampista, che de Paul ha sfruttato in maniera utilitaristica pure per prendersi la maglia da titolare nella Nazionale argentina – in effetti era ed è fuori luogo pensare a de Paul al posto di Dybala, Agüero, Di María e/o Lautaro Martínez, oltre ovviamente a Messi –, è terminata più o meno un anno fa, dopo che de Paul sembrava aver trovato la sua miglior dimensione come seconda punta, dopo che aveva imparato a essere un libero professionista in attacco, un elemento privo di mansioni precise e aree da presidiare, una condizione potenzialmente perfetta per un calciatore con il suo talento, la sua fantasia. Non a caso, a novembre 2018 contava già sei gol e due assist decisivi nella Serie A 2018/19. Poi però Davide Nicola e Igor Tudor hanno visto che qualcosa era cambiato e hanno progressivamente arretrato il suo raggio d’azione, lo hanno impostato come mezzala, e allora de Paul si è rivelato definitivamente, è diventato il leader assoluto dell’Udinese – uno status reale, non solo virtuale, sancito anche dal fatto di essere diventato capitano della squadra friulana: la prima volta con la fascia al braccio risale al 10 febbraio 2019, in occasione di Torino-Udinese 1-0.

Evidentemente non siamo riusciti a capire subito cos’era Rodrigo de Paul, di cosa aveva bisogno per dare il meglio di sé. Forse anche lui non è stato troppo bravo a mostrare le sue carte con immediatezza. Lo ha ammesso tra le righe di un’intervista rilasciata a Diario Olé al termine del 2019, una chiacchierata in cui de Paul sembra essere davvero sincero e consapevole rispetto alle fasi della sua crescita: «Ho vissuto un anno importante dal punto di vista personale e professionale. È nata mia figlia, ho giocato bene in Copa América, ho vissuto una grande stagione all’Udinese. Sono in Europa da sei anni e posso dire che sono cambiato, sono maturato. Soprattutto l’esperienza in Italia mi ha insegnato a correre in maniera intelligente, a capire il gioco».

Il termine chiave è “maturare” inteso nel significato di accesso alla maturità, quindi a un livello superiore di esperienza, di forza, attenzione, consapevolezza: tutti parametri che si sono palesati in maniera più evidente quando de Paul ha cambiato posizione in maniera stabile. Quando gli sono state affidate delle responsabilità nuove, composite, più accentuate.

De Paul ha esordito con la Nazionale maggiore argentina nel 2018, da allora ha accumulato 16 presenze totali di cui sei nell’ultima Coppa America, in cui la Selección è arrivata al terzo posto (Edward A. Ornelas/Getty Images)

Il percorso di de Paul risulta essere molto significativo proprio per questo aspetto pressoché unico, per cui il 25enne nativo di Sarandi – la cittadina più popolosa del Partido di Avellaneda, nella Gran Buenos Aires – ha trovato la sua dimensione in una zona del campo più arretrata e in un ruolo che prevede compiti più ampi, che almeno in teoria dovrebbe limitare la sua libertà offensiva, restringere il suo talento e aumentare il carico di attribuzioni, a cominciare da una fase difensiva più impegnativa. Invece de Paul si è giovato di questi nuovi oneri, evidentemente era già maturo e nessuno se n’era accorto, è bastato spostarlo indietro di qualche metro per renderci conto che aveva bisogno di sentire una fiducia totale, di interpretare una centralità che andasse oltre la ricerca dell’intuizione decisiva, che si concretizzasse nella continuità del gioco, in una sollecitazione costante. Ora le sue enormi qualità tecniche si sono razionalizzate, sono diventate uno strumento utile per la costruzione della manovra, non solo per la fase di conclusione – che resta comunque di ottimo livello, come dimostrano le tre reti consecutive negli ultimi tre turni di Serie A.

Chiarite le differenze e fatte le opportune proporzioni, la trasformazione di de Paul in centrocampista può essere assimilata a quella di Andrea Pirlo all’inizio di questo secolo: l’ex Milan e Juventus fu spostato dalla trequarti nel cuore del gioco per sfruttare un talento già conosciuto, che consisteva nella sua capacità di tagliare il campo con un lancio lungo eppure estremamente preciso, di eludere gli avversari con un’iconica finta di corpo che da lontano sembrava solo una scrollata di spalle, di dettare i tempi di un’intera squadra con un semplice controllo orientato, con appoggi ravvicinati solo apparentemente elementari; allo stesso modo, l’argentino dell’Udinese ha continuato a giocare come sempre solo che ha iniziato a farlo nel ruolo di mezzala, così gli eventi che hanno caratterizzato e caratterizzano il suo calcio – gli strappi palla al piede, i dribbling secchi e veloci come le sterzate di una sbandata controllata, i tocchi a liberare gli inserimenti dei compagni – hanno iniziato a manifestarsi più spesso, anche se in una zona lontana dalla porta.

Da quando è arrivato a Udine, nel 2016, de Paul ha giocato 128 partite e ha segnato 22 gol, tra Serie A e Coppa Italia (Emilio Andreoli/Getty Images)

Probabilmente il fatto di militare nell’Udinese ha aiutato de Paul a identificare e rifinire il giocatore che era dentro di lui, da anni è l’elemento con maggiore qualità nella rosa del club friulano, quindi era quasi inevitabile notare che si fosse evoluto, che arretrarlo a centrocampo potesse essere la scelta giusta, che forse non c’erano grandi alternative a questa intuizione tattica, e meno male, viene da dire. Queste considerazioni sono confermate dalle statistiche: l’Udinese è solo la 15esima squadra di Serie A per produzione offensiva (12 conclusioni tentate a partita), quindi è difficile che un suo calciatore primeggi in qualche graduatoria specifica riferita all’intero campionato, ma in questo contesto de Paul riesce a essere il giocatore bianconero che segna di più (quattro gol totali), che tira di più verso la porta avversaria (2,1 conclusioni tentate per match), che effettua più dribbling e più passaggi chiave (2,2 e 2,1 ogni novanta minuti) pur giocando a centrocampo.

L’affermazione di de Paul in un nuovo ruolo è una lezione, nel senso che crea un precedente, una valida alternativa procedurale: i giocatori forti ma incostanti, quelli considerati inevitabilmente un po’ pigri, non solo possono essere recuperati, ma anzi possono essere invitati a crescere attraverso la responsabilizzazione – un processo che per de Paul ha avuto dei risvolti primariamente tattici, ma anche umani. Non è una teoria infallibile, non può valere per tutti, ma l’argentino dell’Udinese ha dimostrato di essere diverso da come veniva dipinto, ha saputo individuare uno spazio che non sembrava potergli appartenere, se ne è appropriato, l’ha fatto senza cambiare più di tanto, forse siamo noi che abbiamo imparato a vederlo davvero, abbiamo imparato a capire meglio un giocatore, una persona e delle cose nuove, e la lezione è proprio questa.