I migliori allenatori moderni sono gli ex centrocampisti

Perché hanno l'attitudine alla completezza, a comprendere il gioco in tutte le sue fasi.

C’è un aspetto che accomuna gli allenatori delle sedici squadre qualificate per gli ottavi di finale della Champions League 2019/20. Esclusi quelli che non hanno avuto un passato sul campo in categorie di alto livello (Mourinho, Sarri, Nagelsmann), e quelli che ne hanno avuto uno breve e trascurabile (Klopp, Tuchel), gli undici che rimangono sono tutti, dal primo all’ultimo, ex centrocampisti. Senz’altro ciascuno con le proprie caratteristiche: tra Lampard e Guardiola la forbice è ampia, e tra Zidane e Gattuso e Simeone lo spazio di mezzo è talmente grande che ha senso chiedersi se davvero si parli dello stesso ruolo. E tuttavia l’analogia rimane evidente: il curriculum sul campo della maggior parte degli allenatori di maggior prestigio su scala internazionale è generalmente uniforme. Tutti, chi più e chi meno, hanno giocato nella fascia centrale del campo.

La prossimità fra un prima in mezzo al campo e un dopo in panchina, oltre la Champions League, è un tema estendibile ai cinque maggiori campionati europei con circa lo stesso grado di evidenza. Considerati i novantotto tecnici in carica oggi tra Premier League, Liga, Serie A, Bundesliga e Ligue 1, quasi il cinquanta per cento vanta infatti un passato da centrocampista. Le differenze tra una competizione e l’altra ci sono, ma sono lievi: in Italia ne abbiamo undici su venti e in Inghilterra sono in sei; in Germania se ne contano dieci, esattamente come in Spagna. E ancora, la categoria degli ex centrocampisti è la più presente – con sei rappresentanti – nella classifica che ordina i quindici allenatori più vincenti nelle competizioni europee. È un predominio sul quale vale la pena interrogarsi anche alla luce di un altro fatto, ovvero che non sempre le cose sono andate così: al momento tra gli otto allenatori più titolati della storia ci sono quattro ex attaccanti (Ferguson, Lucescu, Lobanovski e Hitzfeld), due ex difensori (Stein e Scolari) e un solo ex mediano (Guardiola), più Mourinho.

Ma anche lasciando da parte dati e classifiche, è difficile negare che l’immaginario collettivo degli ultimi tempi sia stato conquistato e dominato da allenatori che furono centrocampisti. Guardiola è certamente il tecnico che più di tutti ha definito l’ultima decade, ma non è stato il solo a lasciare il segno: Del Bosque è stato l’artefice silenzioso della Spagna che ha incantato il mondo e l’Europa tra 2010 e 2012; Zidane ha vinto tre Champions League consecutive creando a Madrid una legacy talmente forte che il club è stato costretto a richiamarlo dopo che lui stesso se ne era andato; Simeone ha letteralmente creato il suo Atlético, portandolo a competere con – e lentamente ad avvicinarsi a – le due squadre più ricche della Spagna; Allegri e Conte si sono spartiti la Serie A dal 2011 in poi, dominando entro i confini e collezionando ottimi piazzamenti al di fuori. È percepibile anche tramite un approccio meno razionale e quantitativo, per così dire, che gli allenatori con quel background abbiano collezionato in panchina risultati sopra la media.

Perché, quindi, accade così spesso che chi ha giocato ad alti livelli in mezzo al campo riscuota successo anche nei panni di allenatore? In una telefonata con Undici, l’ex Commissario Tecnico della Nazionale Cesare Prandelli, anche lui con una carriera da centrocampista, ha argomentato così la sua visione: «Il centrocampista nasce come equilibratore, è abituato a stare nel cuore della gara, e da questo aspetto deriva che al termine della carriera avrà messo insieme una conoscenza più completa della gara». È una questione fisica, legata allo spazio: chi gioca in mezzo al campo è fin da giovane strutturalmente abituato ad avere ovunque, intorno a sé, dei compagni con cui legarsi e degli avversari da controllare: al suo fianco, alle sue spalle, di fronte. Nessuno meglio del centrocampista sviluppa una versatilità e un set di conoscenze tanto ampie, sia in termini di zone, di parti del campo, sia per quanto riguarda i momenti della gara, dalla quale a differenza degli altri ruoli non può mai prendersi una vera pausa.

Prima di arrivare all’Atlético Madrid, Diego Simeone ha guidato il Racing Club, l’Estudiantes, il River Plate, il San Lorenzo e il Catania. Lavora in Spagna dal dicembre 2011 (Maja Hitij/Getty Images)

È chiaro che questa tesi non ambisce ad avere un valore assoluto: ha almeno due punti deboli. Il primo consiste nel fatto che non tutti i centrocampisti sono totali quanto il modello ideale lascia intendere: Zidane ne è stato un esemplare di altissimo livello, ma in realtà non l’abbiamo mai visto interessarsi attivamente delle fasi di schermatura; Guardiola lo è stato allo stesso modo, ma non lo ricordiamo per la sua rapidità negli inserimenti senza palla, o per i suoi recuperi fulminei in campo aperto. Una seconda obiezione riguarda la contrapposizione tra il l’idealtipo di un centrocampista che fa tutto da un lato, e i portieri, i centrali, gli attaccanti e tutti gli altri che si limitano a fare poco dall’altro.

In questo senso si può osservare che la tendenza del calcio moderno, dove il ruolo è sempre meno una posizione e sempre più una funzione, rende molto più ambiguo il concetto di centrocampista; al punto che, ad esempio, non è così assurdo considerare i terzini più evoluti alla stregua di centrocampisti veri e propri. Pretese di assolutismo a parte, tuttavia, l’osservazione per cui chi sta in mezzo al campo è strutturalmente tenuto a ridurre al minimo le distrazioni – e di conseguenza ad approfondire più degli altri, gara dopo gara, la conoscenza del gioco – dovrebbe sembrare accettabile.

Antonio Conte è tornato in Serie A dopo cinque anni vissuti come commissario tecnico della Nazionale italiana e come manager del Chelsea; in carriera, il tecnico salentino ha conquistato quattro titoli nazionali tra Italia e Inghilterra, una Fa Cup e una Supercoppa italiana (Richard Heathcote/Getty Images)

Un secondo attributo che lega la carriera da centrocampista alla predisposizione ad allenare è quello della riflessività. Di questo aspetto Undici ha parlato con un noto allenatore di Serie A, un ex centrocampista che ha preferito rimanere anonimo. «Il ruolo (in mezzo al campo, nda) incide perché porta a riflettere», ha detto. «Ti viene richiesto di pensare sul piano degli equilibri, si maturano certe sensibilità. […] A me è capitato diverse volte di indicare uno dei miei giocatori e dire: lui farà l’allenatore. Se ci penso però l’ho sempre detto perlopiù a chi stava davanti alla difesa, o al massimo ai difensori centrali. Di tutti gli altri, gli esterni, i creativi, non lo dicevo». In un editoriale sul Daily Mail del 2013, sostenendo la teoria per cui «i migliori allenatori sono quelli che hanno fatto i centrocampisti difensivi», Jordi Crujff si spiegò in maniera simile: «Hanno sempre altri giocatori attorno, per cui devono avere una ottima consapevolezza e l’abilità di prendere decisioni velocemente». In quella zona nevralgica tra la linea difensiva e la trequarti è particolarmente importante sviluppare una attitudine alla razionalità, alla gestione del rischio e alla sua massima limitazione, sia con il pallone che senza. Inutile sottolineare come questa predisposizione diventi uno strumento preziosissimo quando si tratta di guidare una squadra da fuori.

Oltre alla dimensione tecnica della conoscenza e a quella della riflessività, un aspetto che rende più solida la tesi riguarda il modo in cui il centrocampista si relaziona al sistema-squadra. Secondo Prandelli si tratta di un ruolo intrinsecamente rivolto al collettivo: «Insieme al difensore centrale, il centrocampista è quello che parla di più; mi riferisco proprio alla comunicazione, è lui che trasmette le indicazioni alla squadra». E ancora: «La maggior parte degli altri ruoli sono più specifici, più individualistici». Queste ultime parole vanno forse in contrasto con la tendenza contemporanea di cui si diceva sopra, una tendenza per cui almeno ad alti livelli tutti sono portati a fare un po’ di più tutto, ma sono perfettamente aderenti al calcio visto da Prandelli da giocatore e ai suoi anni d’oro da allenatore. E in ogni caso, anche se nulla vieta che fra qualche anno potremo vedere grandi portieri o grandi terzini nei panni di grandi allenatori senza per forza considerarli eccezioni, in questo momento è un fatto che sia il mestiere del centrocampista su tutti ad essere legato a doppio filo con quello del tecnico.

Steven Gerrard è alla seconda stagione sulla panchina dei Rangers Glasgow: un anno fa è arrivato secondo in classifica, ora insegue il Celtic con due soli punti di distacco, e una partita da recuperare, e disputerà i 16esimi di Europa League (Ian MacNicol/Getty Images)

Tornando sul punto, sul concetto di collettività, è chiaro che chi sta in mezzo al campo sviluppi un automatismo a pensarsi centrale oltre alla dimensione fisica, materiale – una riflessione magari istintiva, ma che porta in ogni caso la sua figura a ricalcare quella dell’allenatore. Dal pensarsi centrale all’accorgersi di avere intorno una squadra da organizzare il passo è breve: «Quando i centrocampisti chiamano la salita del baricentro», dice Prandelli, «si girano, si guardano attorno per accertarsi che la squadra sia un blocco unito». Ed è solo uno dei tanti esempi che mettono in evidenza la loro attenzione per l’idea di insieme.

Per riportare la teoria alla pratica è sufficiente pensare a Xabi Alonso, a Sergi Busquets o a Xavi, ma anche a Gerrard, a Lampard e ad Arteta che sono già in tuta e/o in giacca e cravatta, e lo sono già a buoni e ad alti livelli. Centrocampisti cresciuti e maturati in un calcio dai dettagli – fisici, atletici e tattici – sempre più curati, e che non si sono mai schiodati dal centro del campo. Lì, loro come altri in precedenza, alcuni più ed alcuni meno, hanno sviluppato le tre attitudini di cui abbiamo parlato. Una conoscenza completa, anche se non sempre iper-approfondita, di tutte le fasi della gara e di tutte le zone del campo. Una predisposizione alla riflessività e alla razionalità, ad una efficiente elaborazione delle scelte e alla loro rapida esecuzione. E una assimilazione dell’idea di collettivo, spesso seguita dall’attitudine all’altruismo. Elementi legati l’uno con l’altro, sovrapponibili eppure distinti, preziosi quando non indispensabili per rendere un allenatore un grande allenatore.