La crisi del Napoli è progettuale, prima che tecnica o di risultati

E per questo anche l'impatto di Gattuso è stato così negativo.

Il rendimento del Napoli dopo l’esonero di Ancelotti e l’arrivo di Gattuso (una vittoria in campionato, una in Coppa Italia e quattro sconfitte in Serie A, di cui tre al San Paolo) conferma un sospetto: la crisi della squadra azzurra riguarda l’intero progetto del club, la visione attraverso cui è stata approcciata questa stagione. È un rapporto inverso, per cui lo scarso rendimento in campo ha portato ad aggravare, a rendere esplosive, situazioni irrisolte nel rapporto triangolare tra dirigenti, allenatori e calciatori.

Tutto è venuto a galla al culmine di un brutto periodo per la squadra allora allenata da Ancelotti: il 2 novembre, il Napoli perde all’Olimpico contro la Roma dopo aver pareggiato in casa della Spal e al San Paolo contro l’Atalanta, e allora De Laurentiis impone il ritiro ai suoi giocatori. Tre giorni dopo, al termine della gara di Champions contro il Salisburgo (1-1 al San Paolo), i calciatori si rifiutano di tornare in ritiro nel centro tecnico di Castel Volturno. Da lì in poi la spirale negativa ha portato al cambio in panchina, ma come detto tutti i casi pendenti risalgono a molto tempo prima: Callejón e Mertens avevano – e hanno – il contratto in scadenza nel 2020, Allan era stato a un passo dalla cessione al Psg a gennaio 2019, Insigne aveva già cambiato procuratore. Eppure sono tutti rimasti a Napoli. Nonostante queste criticità, gli azzurri avevano anche iniziato bene la stagione: prima del match dell’Olimpico contro la Roma, lo score totale tra Serie A e Champions League era di sette vittorie, quattro pareggi e due sconfitte – contro la Juventus alla seconda giornata e contro il Cagliari al San Paolo. Nello stesso periodo, il Napoli aveva battuto il Liverpool (unica sconfitta stagionale della squadra di Klopp in tutte le competizioni) e il Salisburgo in trasferta.

Come dire: pur senza incantare, pur senza infilare una lunga serie di risultati positivi, le scelte di Ancelotti avevano tenuto il Napoli in linea di galleggiamento. Dopo un avvio promettente, la squadra però ha smesso di progredire, il rendimento è calato e allora De Laurentiis ha pensato che i problemi potessero risolversi passando per il campo, per la restaurazione di un calcio più sistemico. L’arrivo di Gattuso in panchina è stato annunciato e presentato proprio in questo modo, il presidente e i dirigenti del Napoli e lo stesso allenatore hanno dichiarato più volte che questa rosa fosse adatta per un gioco facilmente identificabile per principi e meccanismi di riferimento – possesso palla, catene laterali, reparti stretti – oltreché per il modulo di gioco, il 4-3-3 utilizzato da Sarri durante la sua esperienza napoletana.

In realtà, la situazione risulta essere molto più complessa: proprio in virtù del suo approccio sistemico, Gattuso ha avuto e ha ancora bisogno di tempo per veder fruttare il suo lavoro, ma la sensazione è che il Napoli non sia (più) una squadra adatta a questo tipo di calcio, piuttosto abbia una rosa ibrida. Gli arrivi di Lobotka e Demme hanno rinforzato il reparto di centrocampo e potranno dare un contributo diverso rispetto a Fabián Ruiz (finora schierato nel ruolo di pivote davanti alla difesa, con esiti a dir poco insoddisfacenti), in pratica il mercato ha confermato che la rosa era stata costruita per giocare in un altro modo.

Solo che il processo di restaurazione di Gattuso non può passare solo dall’arrivo di uno o due centrocampisti, anzi pare si stia scontrando con un gruppo ormai sfaldato, sfilacciato. Come detto, la scollatura è dovuta ai risultati negativi, alla tensione per i rapporti ormai incrinati, ma soprattutto a una composizione incoerente, viene da dire improvvisata. Da una parte ci sono giocatori che amano un gioco meccanico (Insigne e Callejón, per esempio), poi ci sono elementi che invece praticano un calcio verticale, fatto di strappi (Lozano ed Elmas in avanti, Manolas come impostazione difensiva), e anche centrocampisti universali che giocano a tutto campo, interpretando la partita e le partite in base ai momenti (Zielinski, Fabián Ruiz).

Arkadiusz Milik è il miglior attaccante nella stagione del Napoli: ha segnato 10 gol in 14 partite di tutte le competizioni (Francesco Pecoraro/Getty Images)

Al termine della partita contro la Fiorentina, probabilmente la peggior prestazione della sua gestione, Gattuso ha insistito sulle difficoltà mentali del Napoli, ma ha anche aggiunto che i suoi giocatori «si allenano al massimo, ma poi non riescono a ripetere in partita ciò che fanno durante la settimana». È proprio da una dichiarazione del genere che si evince la grande confusione progettuale che regna nel Napoli: al netto delle (evidenti) tare mentali, la squadra azzurra era stata assemblata e preparata per giocare un certo tipo di calcio, poi però quell’approccio è stato rigettato e oggi si sta tentando una complicatissima operazione di ritorno al passato, quando invece il tempo ha cambiato inevitabilmente gli equilibri, le persone, non solo a Napoli, ma anche in tutto il resto del mondo calcistico.

Ancelotti aveva provato ad avviare un nuovo ciclo, è evidente che abbia commesso degli errori, ma il ricorso al cambio in panchina partendo dal cambio della filosofia tattica, soprattutto a stagione in corso e a livelli così alti, può anche aumentare gli scompensi. Al Napoli sta succedendo proprio questo, e infatti all’orizzonte si intravede già un’appendice di rivoluzione: l’investimento per Rrahmani, annunciato ufficialmente oggi, è stato importante – 15 milioni per un 25enne –, è difficile pensare che non presupponga l’addio di un centrale (Koulibaly?), solo che De Laurentiis, Gattuso o chiunque porterà avanti questo nuovo tentativo di andare nel futuro devono decidere di voler davvero fare questo passo, staccandosi definitivamente da un passato ingombrante, che ha finito per fagocitare addirittura Ancelotti, un profilo più grande dello stesso Napoli.