Gli obiettivi di Elena Linari

Il nuovo calcio italiano femminile, l'Atlético, la famiglia: intervista con il difensore della Nazionale.

Delle Azzurre che hanno portato l’Italia ai quarti di finale ai Mondiali in Francia è l’unica che gioca all’estero, e già questo basterebbe a fare di Elena Linari, difensore dell’Atlético Madrid, un personaggio da copertina. Toscana di Fiesole, 26 anni ancora da compiere, ha conquistato il titolo nazionale con tutte le squadre in cui ha giocato – il Brescia, la “sua” Fiorentina e pure in Spagna, dov’è alla sua seconda stagione. Una vincente per natura, Elena. Anche nel combattere i pregiudizi: a ottobre, ai microfoni di Dribbling, ha fatto coming out.

Difficile, insomma, ritrovarsi a corto di argomenti parlando con Elena Linari, che incontriamo una settimana prima di Natale a Madrid. Ci diamo appuntamento fuori dal Wanda Metropolitano, la tana dell’Atlético – maschile, ché le donne giocano ad Alcalá de Henares, poco fuori la capitale. È sera e ci rifugiamo nel ristorante di fianco allo store, anche se la cucina è ancora chiusa – e sono le otto. «Qua è un’altra vita, ho dovuto cambiare le mie abitudini», racconta lei, «a Firenze facevo colazione alle 7:30, poi palestra, pranzo a mezzogiorno e alle tre al campo. Qui ci alleniamo all’una. All’una! Per me è ora di pranzo. Torno a casa e mangio alle tre e mezzo, ormai i miei non ci fanno più nemmen caso».

Ⓤ Partiamo dalla svolta del professionismo nel calcio femminile: che idea ti sei fatta?

L’ho vissuta dalla Spagna e dunque ho una visione diversa. Come ha scritto Sara Gama nella nostra chat di gruppo, «è un grandissimo passo ma non è niente in confronto a tutto quello che vorremmo e avremmo bisogno di fare». Provo comunque felicità perché adesso le donne possono essere professioniste e non è cosa da poco, mi prende male se penso che fino a poco tempo fa c’era una legge che ce lo impediva… Il 2019 è un anno da dieci per il calcio femminile considerando il Mondiale, il seguito attorno alla Nazionale e, ora, l’emendamento alla Manovra.

Ⓤ Carolina Morace ha detto che ci vorranno ancora 10-15 anni per arrivare al top mondiale: un lasso di tempo ragionevole?

Almeno dieci anni sì. Però abbiamo tante qualità: le giovani sono promettenti e al Mondiale abbiamo dimostrato che con un’ottima difesa e un’organizzazione tattica tipicamente italiana riesci ad andare avanti. Altre nazioni come la Germania magari vincono per lo strapotere fisico anche se tatticamente sono più scriteriate: noi da questo punto di vista abbiamo fatto bene, ci manca solo il ritmo col pallone. La preparazione atletica è importante, certo, però devi saper correre anche con la palla.

Ⓤ Ancora Morace: bisognerebbe introdurre un salario minimo e abolire il tetto massimo, altrimenti in Italia non arriveranno mai le più forti. Sei d’accordo?

Sul salario minimo sì, pienamente d’accordo: è per questo motivo che a novembre abbiamo scioperato qui in Spagna. Abbiamo chiesto uno stipendio annuale lordo di 16mila euro a tutte le giocatrici: c’è chi non lo fa ancora di lavoro, una retribuzione minima ci vuole.

Ⓤ E sul tetto massimo?

Dico . In Italia abbiamo parecchie straniere, ma ci sono anche tante giovani: puntiamo su di loro come ha fatto l’Inghilterra, che tre anni fa ha chiuso il mercato e lasciato le sue calciatrici in uno stato di semiprofessionismo. Partiamo da lì. Il nostro problema è che se non è riconosciuto come lavoro io non ho i contributi pagati, eppure mi servono più soldi per metterli da parte quando smetto: posso guadagnare al massimo 60-70mila euro l’anno se sono veramente forte.

Ⓤ Come se la passa il movimento italiano?
Noi non toccheremo con mano i benefici di quanto stiamo facendo, ne godranno le generazioni future

È in crescita, le ragazze che ne fanno parte sanno quello che vogliono, cosa c’è stato prima e lottano per migliorare la situazione. Dopo il «Basta dare soldi a queste quattro lesbiche» di Belloli io, come Sara Gama, sono andata a comprare stoffa e spray per preparare uno striscione: con altre giocatrici ci siamo messe d’accordo per mettere in atto una forma di protesta il giorno dopo. E poi i campi fangosi, la maglia da gioco da lavare a casa: io ho vissuto queste realtà. La mia preoccupazione è che le giovani si trovino la pappa pronta e non abbiano fame, pensano sia tutto dovuto ma non è così: se hai lo sponsor è perché c’è gente che si è qualificata al Mondiale e se c’è riuscita è perché ha fatto dei sacrifici. Noi non toccheremo con mano i benefici di quanto stiamo facendo, ne godranno le generazioni future.

Ⓤ E il movimento europeo?

La Uefa ha proposto di fare la Champions League a gironi, come nel maschile, e non a eliminazione diretta: questo ti permette di avere più partite, altrimenti ti giochi tutta la stagione a settembre e magari esci subito perché becchi l’Ajax o il Barcellona, com’è capitato a Fiorentina e Juventus. Una partita di Champions ti permette di capire a che livello stai in Europa: puoi anche perdere il girone, ma giocare sei volte anziché due fa crescere la squadra e le ambizioni dei club.

Ⓤ Che differenze hai riscontrato fra Italia e Spagna?

Qui non c’è allenamento dove non tocchi il pallone e vogliono che il difensore sia il primo a impostare, cosa che non mi è mai successa in Italia: deve portare palla, magari scarta pure un avversario e fa salire la squadra. Certo, è più difficile effettuare passaggi più filtranti o nello stretto, ma secondo me questo dev’essere il calcio. In Italia dobbiamo migliorare sotto questo aspetto: in certe partite a volte non noto grande coralità di gioco. In compenso qui ogni tanto mi trovo in difficoltà: siamo al limite dell’area e dico, tiriamo?, e invece c’è da fare un passaggio in più.

Ⓤ Stai già studiando per allenare?

Adoro la tattica, ne parlo tantissimo col mio babbo al telefono. Spesso mi hanno additato come difetto che non vado a pressare, ma se non vedo il mio terzino che sta tornando non mi viene naturale: alcune volte lo faccio, altre volte rimango la solita Elena dell’Italia e penso: almeno non si piglia gol.

Ⓤ Ho letto che hai tratto ispirazione dal rugby: come mai proprio questo sport?

Sto guardando una serie tv sugli All Blacks: pigliano delle botte allucinanti, fanno il terzo tempo, si rispettano… Sono veri. E poi hanno un dialogo diretto con l’arbitro: nel calcio non c’è, se non per insultare o mettere pressione, e secondo me non c’è niente di più sbagliato. E poi fanno allenamenti estenuanti: noi, invece, ci lamentiamo per una botta. Non ti fischiano un fallo? Va bene, ti arrabbi ma poi vai avanti. Ecco, il rugby è bello per questo: è vero, puro, non ci sono limitazioni.

Ⓤ Però spesso viene legittimato solo in contrapposizione al calcio. Non vi è successa la stessa cosa con quel “le donne sono ai Mondiali, gli uomini no”?

Esatto. Quando ci fu Italia-Svezia pensai: «Se perdono è l’unica opportunità che abbiamo per diventare famose». Però poi iniziarono a dirci: voi siete qualificate, loro no. E quindi? Noi ci siamo qualificate bene, siamo lo stesso sport ma non ha senso fare paragoni. Come quando dicono che Nadal serve a 180 kilometri orari e Serena Williams a 130: e quindi? Gli stadi sono comunque pieni per vedere entrambi. E la pallavolo, il basket, la pallanuoto? Tutto diverso. È la natura, un uomo ha più muscoli di me anche se non fa niente: non ci si possono aspettare le stesse prestazioni.

Ⓤ In un’intervista a Dribbling hai dichiarato la tua omosessualità: come l’hai vissuto?

Il fatto di ammetterlo è stato un passo molto importante: alle spalle hai famiglia, amici, conoscenti e tutto un seguito che poi lo viene a sapere. Però in Spagna sto bene, la gente non si fa problemi a riguardo: in Italia c’è ancora scetticismo. Durante il Mondiale uscì perfino un articolo sulle nostre vite private: davvero bisogna arrivare a questo per dare spazio al calcio femminile? Io sono una giocatrice, non voglio che si faccia audience così. Ed è un problema solo in Italia, all’estero non è così. Dopo quell’intervista mi hanno scritto un sacco di ragazze, penso di aver trasformato una difficoltà ad esternare una cosa naturale in normalità.

Ⓤ Hai detto che vuoi segnare un gol per dedicarlo alla tua ragazza: forse è la stagione buona, visto che sei stata schierata davanti alla difesa.

Ho cominciato a giocare lì contro il Manchester City per un’esigenza di squadra: le centrocampiste erano infortunate e il mister doveva schierare me o un’altra, non aveva soluzioni. Ho fatto bene e mi ha rimesso lì la domenica successiva e così altre volte, seppur non da titolare. Inizialmente ero un po’ stupita, però mi piace: hai un’altra visione di gioco, arrivi al tiro, dai equilibrio alla squadra e aiuti di più i difensori. Quanto al gol, per me è secondario: da difensore, sono felice se non lo subiamo. Ed è meglio se li segnano le attaccanti, ne hanno più bisogno.

Ⓤ Chi è la più forte che hai marcato al Mondiale?

Sono rimasta impressionata da Sam Kerr: in area di rigore è devastante, ha una progressione e un fiuto del gol allucinanti, ti sbuca da tutte le parti. E poi c’è l’olandese Miedema, non so come fermarla: tira di destro, di sinistro, di testa, se ha una mezza occasione la butta dentro. Per l’età che ha avrei premiato lei col Pallone d’oro, di sicuro sarà quello del futuro.

Ⓤ Come ti ha cambiato la vita il Mondiale?

Ci sono arrivata dopo aver giocato poco sia con l’Atlético che in Nazionale, è stato un modo per far capire che ci sono: ho bloccato attaccanti veramente forti e meritato il posto, anche se mi è dispiaciuto per l’infortunio della mia amica Cecilia Salvai. Adesso ho la consapevolezza di essere una grande giocatrice: mi davano per lenta, nessuna m’è andata via in velocità. Non ho giocato due partite di seguito dal novembre 2018, eppure sono arrivata al Mondiale perché c’è stato tanto lavoro dietro. Merito anche della mia famiglia: mi seguono sempre e sono stati loro a spingermi ad andare all’estero. Per mia mamma non è stato facile ma sapeva che era troppo importante. La mia fortuna più grande è avere loro.