La Roma di Paulo Fonseca ha già vissuto tante vite

Il tecnico portoghese si sta adattando bene alla Serie A.

Nella conferenza stampa di presentazione di Genoa-Roma, Paulo Fonseca ha fornito l’unica chiave di lettura possibile per analizzare il momento, anzi la stagione, dei giallorossi: «Più dei moduli e delle tattiche penso che sia più importante la dinamica del sistema di gioco. Devo confessare una cosa: in tutti i club che ho allenato ero abituato a giocare con uno, massimo due sistemi. Per questo continuo a pensare che non dobbiamo cambiare molto, perché se cambia il sistema cambia la dinamica della squadra; ma credo anche che qui in Italia mi sono comunque abituato a cambiare perché non è facile giocare contro squadre che, di volta in volta, assumono una forma sempre diversa. E se un tempo ho sempre visto come un problema l’eventualità di un cambiamento adesso posso dire di avere un’altra opinione».

Una dichiarazione importante, che smentisce l’idea per cui l’alternanza dei risultati della prima metà di 2019/2020 sia una diretta conseguenza dell’essere una squadra troppo estrema per la Serie A, e che ribalta il racconto per cui Fonseca sia un “ideologo fondamentalista” – una definizione che accompagna quasi naturalmente gli allenatori stranieri al primo impatto con la realtà italiana. Pur essendo ormai assolutamente riconoscibile tanto nei pregi quanto nei difetti, la Roma di Fonseca ha dimostrato di essere in grado di comprendere i propri limiti e di adattarsi con buon tempismo alle contromisure che, di volta in volta, il tecnico portoghese ha adottato alla ricerca della quadratura tattica definitiva. Ad inizio stagione i principali problemi della Roma erano rappresentati da un’uscita del pallone dalla difesa troppo farraginosa e inefficace – soprattutto per una squadra che ha negli istinti verticali di Kluivert, Zaniolo, Pellegrini e Under la sua principale caratteristica –, e da transizioni negative che costituivano la principale falla difensiva del sistema.

Pima di allenare la Roma, Fonseca ha guidato il Paços de Ferreira (in due diversi periodi), il Porto e il Braga nella Primeira Liga, poi è stato assunto dallo Shakhtar Donetsk (Maurizio Lagana/Getty Images)

Nei due pareggi iniziali contro Genoa e Lazio (ma anche nell’8-2 complessivo rifilato a Sassuolo e Istanbul Basksehir), la Roma dava l’impressione di essere vulnerabile sempre e comunque, sia che scegliesse di togliere la profondità abbassando il proprio baricentro, sia che optasse per una difesa uomo contro uomo a tutto campo. In questo senso la sconfitta interna di fine settembre contro l’Atalanta era apparsa quasi inevitabile al termine di 90 minuti in cui ogni singolo duello individuale su entrambi i lati del campo era stato perso. Fonseca aveva quindi deciso di porre rimedio rinunciando alla “salida lavolpiana” – ovvero la discesa di un mediano in mezzo ai centrali in fase di impostazione, alzando contestualmente entrambi i laterali bassi –, mantenendo un terzino più bloccato rispetto all’omologo sul lato opposto e abbassando uno dei mediani in modo da non dover pagare dazio ad ogni errore di impostazione.

A quel punto, però, la Roma si era scoperta offensivamente sterile e prevedibile a causa del sacrificio di un uomo alle spalle della linea di pressione avversaria, vedendosi costretta ad affidarsi quasi esclusivamente alla qualità associative di Dzeko in fase di risalita del campo: il bosniaco, infatti, anche a causa del perdurare dei problemi fisici di Mkhitaryan prima e Pastore poi, è stato – e per certi versi è ancora – il vero trequartista dei giallorossi, l’unico giocatore in grado di dare ordine alle fasi di attacco posizionale. Anche in questo caso Fonseca ha dovuto derogare ad alcuni di quei principi che avevano fatto la fortuna del suo Shakhtar: privo di esterni in grado di entrare dentro il campo, consolidando il possesso e occupando gli half spaces nell’ultimo terzo, il portoghese ha cercato trovare un equilibrio con l’anima verticale della squadra per sfruttare gli strappi palla al piede di Zaniolo, la qualità in rifinitura di Pellegrini e l’attacco della profondità di Kluivert e Under.

Qualche mese fa, la Roma subiva certi gol (e dava la sensazione di poterne subire sempre)

In questo senso si è rivelata fondamentale la gara di Europa League contro il Borussia Monchengladbach quando, nonostante le assenze di Diawara e Cristante (che oggi si alternano in quel ruolo), Fonseca ha scelto in inserire Gianluca Mancini in mediana accanto a Veretout: al netto della soluzione di fortuna, infatti, schierare un elemento in grado di difendere aggressivamente in avanti senza creare scompensi alle sue spalle ha permesso di tornare a sfruttare per intero l’ampiezza del campo con quattro giocatori, liberando Florenzi e Kolarov dall’incombenza di aiutare i centrali nell’uscita del pallone.

Allo stesso tempo, Fonseca è riuscito a costruire una fase di possesso più funzionale ed efficace chiedendo a uno dei trequartisti (Pastore prima, Perotti poi) di surrogarsi nel ruolo di mezzala e facendo in modo che Zaniolo – sette gol e un assist dalla gara del 24 ottobre fino al terribile infortunio rimediato contro la Juventus – fosse messo nelle condizioni ideali per sfruttare le sue qualità fronte porta, da seconda punta vera e propria. Al resto hanno pensato Pellegrini, con la controintuitività delle sue giocate (9 assist e tre passaggi chiave di media) negli ultimi 30 metri, e uno Dzeko sempre più centravanti totale.

Il gol-manifesto della Roma di Fonseca: costruzione bassa che “chiama” il pressing avversario, lancio in verticale per l’esterno, supporto centrale di Zaniolo

Questo dover procedere “per tentativi” e la conseguente altalena di risultati e prestazioni hanno generato un cortocircuito nella valutazione complessiva di una squadra che, comunque, dà l’impressione di sapere sempre quello che fa: l’idea di “estremismo” associato alla Roma di Fonseca non dipende da una identità tecnica e tattica che si sostanzia nella ricerca di un dominio del gioco attraverso il possesso palla, ma della mancanza di una via di mezzo tra gare brillanti ed altre francamente inspiegabili, nonostante una grande capacità di adattamento ad avversari e contesti. Quest’ultimo dettaglio è emerso chiaramente nel confronto con le prime tre squadre del campionato, ben al di là di un bilancio che parla di due pareggi e una sconfitta. E se contro la Lazio alla seconda giornata c’era la scusante non secondaria del trovarsi di fronte un undici consolidato e rodato soprattutto per quel che riguarda lo sfruttamento delle proprie individualità offensive, la sconfitta contro la Juventus ha mostrato come la Roma non sia ancora in grado di ovviare con successo alle singole fasi di gara in cui è costretta a snaturarsi. Cosa che, invece, riesce benissimo alla squadra di Sarri, che ha nella difesa posizionale negli ultimi venti metri il porto sicuro in cui rifugiarsi quando la riaggressione alta non può essere portata nei modi e nei tempi richiesti dall’allenatore.

Contro l’Inter, invece, in una gara in cui Fonseca si è dimostrato tanto umile nel riconoscere l’impossibilità di giocarsela con le sue idee quanto abile nel predisporre un piano partita “su misura” per l’avversario di giornata, si è notata la differenza con una squadra che è riuscita ad assimilare più velocemente i dettami del suo allenatore: anche l’Inter di Conte ha nella ricerca della verticalità e nella costruzione bassa le sue caratteristiche identificative ma, differentemente dai giallorossi, ha saputo mettere in pratica fin da subito principi più basici e immediati e che hanno pagato ampi dividendi nel medio periodo.

In queste tre azioni, l’Inter riesce a disordinare il sistema difensivo della Roma affidandosi a meccanismi consolidati

«Abbiamo consapevolezza di cosa abbiamo fatto con Torino e Juve, abbiamo perso ma fatto buone partite. Non abbiamo ragione per non avere fiducia e penso che abbiamo meritato le vittorie con il Parma in Coppa Italia e contro il Genoa. Stiamo lavorando molto. Anche quando la squadra ha perso abbiamo avuto molte occasioni. Dobbiamo trasformarle, la squadra deve migliorare in questo ma abbiamo giocato con ambizione e coraggio», ha dichiarato Fonseca dopo la vittoriosa trasferta di Marassi. Si tratta dell’ennesima dichiarazione d’intenti su ciò che è la Roma. E, soprattutto, su quello che potrà essere da qui in avanti. Perché l’impressione è che a Fonseca e ai suoi uomini manchi solo un risultato di prestigio contro un avversario di livello per convincersi definitivamente delle proprie potenzialità, e per liberarsi da quella narrazione di “squadra estrema” che non le appartiene. La sfida contro la Juve in Coppa Italia e il derby sembrano, quindi, arrivare al momento giusto.