Bassani, Weisz, Castellani, la fondazione della Roma, lo stadio del Napoli: la lotta alle discriminazioni ha segnato alcune delle pagine più belle dello sport italiano.
In un libretto divulgativo pubblicato giusto vent’anni or sono, il grande storico inglese Eric Hobsbawm, l’autore de Il secolo breve, affermava che la globalizzazione che allora cominciava a delinearsi chiaramente, si era manifestata in modo visibile per la prima volta nel mondo del calcio. Così nelle squadre di club come nelle Nazionali, dagli anni ’90 in poi sono state sempre più evidenti le conseguenze del colonialismo e della nuova immigrazione. Nessuno però avrebbe potuto profetizzare che vent’anni dopo lo Zeitgeist sarebbe stato nuovamente insidiato dal razzismo in tutte le sue varianti: antisemitismo, antiziganismo, islamofobia, razzismo.
Sono certo tutti sottoprodotti del sovranismo populista o populismo sovranista, etichetta nuova per il buon vecchio nazionalismo, che si è diffuso di nuovo a macchia d’olio soprattutto nelle provincie e nelle campagne di ogni continente. Ecco allora che un libro che usa il calcio come strumento interpretativo privilegiato della società può essere utile per capire meglio il brutto guazzo in cui viviamo oggi, quello della mancata commissione parlamentare di Liliana Segre, del prof. Emanuele Castrucci all’Università di Siena, dei manifesti su Anna Frank romanista e dei cori allo stadio contro Boateng, Koulibaly, Balotelli. Si tratta del libro di Massimiliano Castellani e Adam Smulevich, Un calcio al razzismo. 20 lezioni contro l’odio (Giuntina, euro 10). Smulevich è ufficio stampa dell’Ucei (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) mentre Castellani lavora per Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani. Uno è aschenazita toscano di origini fiumane, l’altro umbro di origini longobarde essendo di Spoleto, ma per quanto appassionati di calcio, sono giornalisti che si occupano prevalentemente di questioni culturali e questo emerge dalle venti lezioni, che in fondo sono racconti in cui il valore letterario non inficia la veridicità storica dei fatti narrati.
A partire dall’incipit, cioè dalla drammatica partita fra Ss e Sonderkommando (i collaborazionisti dei lager, in maggioranza ebrei) ricordata da Primo Levi ne I sommersi e i salvati (1986): «Siete come noi, voi orgogliosi: sporchi del vostro sangue come noi. Anche voi, come noi e come Caino, avete ucciso il fratello. Venite, possiamo giocare insieme», o l’amichevole organizzata per festeggiare la liberazione fra polacchi e italiani ricordata ne La tregua (1963) o ancora una partita avvolta nel mito disputata sull’Appennino marchigiano, a Sarnano, tra la Wermacht e i partigiani, tutte partite paradossali ciascuna con un significato differente.
Nessuno avrebbe profetizzato che lo Zeitgest sarebbe stato nuovamente insidiato dal razzismo in tutte le sue variantiIl libro poi sottolinea il fondamentale contributo ebraico alla Serie A anteguerra: Árpád Weisz (1896-1944), morto ad Auschwitz con tutta la famiglia, allenatore dell’Ambrosiana Inter vincitrice del primo scudetto a girone unico 1929/30, colui che introdusse i ritiri e la dieta, facendo debuttare il diciassettenne Peppino Meazza, e poi dei due scudetti consecutivi del Bologna di Renato Dall’Ara che misero fine allo strapotere juventino degli anni ’30; quindi Béla Guttmann, da giovane campione dell’Hakoa – squadra ebraica viennese per la quale tifava Franz Kafka, pare – e da allenatore poi al Padova, alla Triestina, al Milan dove lanciò il triestino Cesare Maldini, quindi globe-trotter, conquistatore di due Coppe Campioni consecutive col Benfica di Eusébio, mietitore di successi anche in Sudamerica da inventore del modulo 4-2-4 copiato anche dalla Nazionale brasiliana del primo Pelé; infine Ernö Erbstein, l’allenatore del Grande Torino, scampato alla morte a Budapest grazie all’eroismo di Roul Wallenberg, lettore del saggio di Huizinga, Homo ludens (Einaudi) che spiegava a Mazzola e agli altri, tutti scomparsi nella tragedia di Superga del 1949.
Se gli ebrei come gli zingari in tempi di nazionalismo venivano malvisti per la loro origine sovranazionale e apolide, nelle città italiane erano invece spesso i più fervidi interpreti del genius loci cittadino: fra il 1921 e il 1924, a cavallo del fascismo cioè, Enrico Bassani è stato presidente della Spal, la squadra che il figlio Giorgio cantore del Giardino dei Finzi-Contini e del Romanzo di Ferrara tiferà per sempre (sfottendosi spesso con l’amico Pier Paolo Pasolini, acceso tifoso del Bologna), mentre nella Capitale, la comunità ebraica più antica d’Europa non ha generato e conservato solo il carciofo alla giudia o il tortino di aliciotti e indivia, ma anche la As Roma: fondata nel 1927, di cui diviene presidente l’anno dopo in forza dei capitali trovati per l’impresa Renato Sacerdoti. Si dimette nel 1935 in seguito a una feroce campagna stampa antisemita con l’accusa di esportazione di capitali all’estero. Arrivano le leggi razziali e la guerra, ma nel 1951 ritorna nel momento più buio della squadra, quello della Serie B, riportandola subito in A, una bellissima rivincita.
Se gli ebrei in tempi di nazionalismo venivano malvisti, nelle città italiane erano invece i più fervidi interpreti del genius loci cittadinoCosì come quella di Giorgio Ascarelli, primo presidente del Napoli fondato nel 1926: Ascarelli, fervente socialista, non esita a mettere a disposizione del prossimo le sue risorse. Fa costruire asili, strutture per l’infanzia, aiuta i lavoratori meno abbienti. E fa realizzare a proprie spese uno stadio. È il primo impianto di proprietà di un certo peso nella storia del calcio italiano. Morirà giovanissimo nel 1930, poche settimane dopo l’inaugurazione dello stadio che subito gli verrà intitolato salvo poi cambiare sempre per le leggi razziali, ma la memoria sopravvisse. Ancora nei primi anni ’80 un suo nipote, l’architetto romano Gianni Ascarelli, impegnato in un cantiere difficile sotto il Vesuvio veniva rassicurato dagli ispidi operai autoctoni: «Archité, lei con quel nome, qui può stare tranquillo».
In tema di stadi va citata anche la storia triste di Carlo Castellani, dall’andatura caracollante e imprevedibile: fino al 2011è stato il massimo bomber dell’Empoli che gli ha dedicato appunto il suo impianto. Di famiglia socialista, dopo uno sciopero si costituì al posto del padre ai repubblichini, per morire a Mauthausen di dissenteria.
Pochi sanno che Zeman arrivò in Italia per sfuggire alle discriminazioni nella Cecoslovacchia della Cortina di ferroAngosciante la storia poi di Luciano Vassallo, eroe dimenticato del calcio africano: figlio di un’etiope e di un ufficiale fascista che non ha mai conosciuto, Luciano e il suo fratellino Italo sono figli dell’Impero, cresciuti da una madre sola in grande indigenza e sottoposti a una doppia discriminazione perché mulatti diversi sia dai bianchi sia dai neri. Eppure, dopo il lavoro, riescono a giocare a calcio con ottimi risultati tanto che Luciano è tuttora il recordman di presenze nella Nazionale etiope nonché autore di uno dei quattro gol della finale della Coppa d’Africa del 1962 con cui l’Etiopia batté l’Egitto. Un altro gol lo segnò Italo, ma poi nei registri ufficiali vennero tutti attribuiti a Menghistu, giocatore omonimo del dittatore che di lì a poco getterà il paese nel terrore con le sue squadre della morte, italiani in primis. Dal 1970 Vassallo vive in Italia, alla periferia di Roma, “triste, solitario y final”.
A volte il razzismo è involontario lievito e leviatano di grande calcio. Pochi sanno ad esempio che Zdenek Zeman è arrivato in Italia nel 1972 per sfuggire alla discriminazione che nella Cecoslovacchia della Cortina di ferro era riservata alle famiglie molto cattoliche: raggiunse la Sicilia dove viveva lo zio Cestmír Vycpálek, ex internato a Dachau e risorto prima come giocatore e in seguito come allenatore della Juventus nei due scudetti 1971/72 e 1972/73, quelli dello svezzamento dei vari Causio, Capello, Bettega e Anastasi. Ironia della sorte vuole infatti che il grande accusatore della Vecchia Signora anni ’90 abbia avuto in origine un cuore bianconero.
Da ultimo, nel libro occorre un intellettuale del calcio, Lilian Thuram, non solo perché era solito festeggiare i suoi non pochi gol con la maglia del Parma, della Juventus o della Nazionale francese campione del mondo nel 1998 con un’espressione da Pensatore di Rodin, quanto perché fuori dal campo ha sempre inforcato occhialini da filosofo, o meglio da storico. Nei lunghi trasferimenti in pullman o in aereo, il difensore nato in Guadalupa, invece di ascoltare un walkman, da sempre legge un’infinità di libri sullo schiavismo, arrivando poi ad avere contatti diretti con l’antropologo Cvetan Todorov e persino con un neurobiologo, Jean-Didier Vincent: «Il cervello condiziona la maggior parte delle nostre scelte e azioni. La decostruzione dei pregiudizi e di un certo tipo di immaginario passa attraverso la comprensione di quello che ci governa e ci forma». Anche per questo ha sempre risposto a tono a Jean-Marie Le Pen o Nicolas Sarkozy, sfilando con la sua famiglia allargata anche alle manifestazioni pubbliche in difesa dei movimenti Lgtb.
Sono insomma queste tutte storie molto differenti, lontane dai discorsi da bar o da stadio di oggi: si tratta di «memorie un po’ sbiadite, che hanno invece molto da insegnarci. Vicende diverse, inserite in una narrazione comune che abbraccia oltre un secolo di storia italiana». C’è un gioco da salvare, scrivono Castellani e Smulevich: «E la cura potrà essere solo una buona dose di consapevolezza».