Kobe Bryant è stato il simbolo di una generazione

Fa parte di quei personaggi in grado di segnare un’epoca ben oltre il loro essere stati così speciali in un determinato ambito.

Si potrebbero scrivere tante cose: che l’ultimo tweet di Kobe Bryant per omaggiare LeBron James, che lo aveva superato nella classifica per punti segnati ogni epoca nella sua Philadelphia, con la maglia dei suoi Lakers, sia stato il lascito migliore possibile. Si potrebbe scrivere che quel “Mamba 4 Life” che LBJ si è impresso sulle scarpe con un pennarello, in maniera persino artigianale nell’epoca delle signature shoes dalla filiera creativa infinita, nell’ennesima notte in cui ha riscritto la storia, rappresenti l’unico modo per raccontare qualcuno in grado di trascendere il campo, il tempo, le distanze, persino se stesso.

Si potrebbe scrivere che la prima cosa cui tutti hanno ripensato quando si è avuta la conferma che, oltre a Kobe, era scomparsa anche la figlia Gianna Maria, è stato il video in cui venivano immortalati a bordo campo al Barclays Center di Brooklyn, in un momento solo loro destinato a diventare un momento di tutti: c’è Kobe che parla a Gigi, che le spiega ciò che sta vedendo sul campo, che condivide con lei una passione e una conoscenza del gioco senza eguali. È un’istantanea potente e significativa: c’è il privato che diventa pubblico, c’è l’umanizzazione di un personaggio che di umano aveva ben poco e che umano non voleva apparire agli occhi del mondo.

Quel mondo che si è fermato con e per lui, dimenticandosi di tutto il resto: perché oltre l’idea del giocatore più generazionale, trasversale e rappresentativo della Nba post Jordan, resta la sensazione condivisa di essere al cospetto di una personalità troppo grande per poterne accettare fino in fondo la perdita, per potersi abituare alla sua mancanza.

In pochi minuti, tutti i quotidiani più autorevoli del mondo, sportivi e non sportivi, hanno deciso di aprire le loro edizioni online con la notizia della sua morte. Il New York Times ha mantenuto aperto, per tutta la notte italiana, un live update sull’incidente in California, tenendolo sempre in evidenza nella sua home page. Alessandro Mamoli, nell’intervallo di un Napoli-Juventus di cui non importava già più niente a nessuno, ha detto che «ci renderemo conto di tutto questo solo tra qualche giorno». Quando, cioè, l’incredulità lascerà spazio a quel senso di vuoto, inspiegabile solo in apparenza, che da sempre accompagna la percezione distorta della morte associata agli idoli pagani in grado di segnare un’epoca ben oltre il loro essere stati così speciali in un determinato ambito: come Ayrton Senna, come Muhammad Ali, ma anche come Diana Spencer, come Gianni Versace, Kobe Bryant rappresenta una parte di quotidianità, una parte di noi, non necessariamente di e da appassionati di basket, che si pensava ci avrebbe accompagnato per sempre. È un’icona la canotta numero 8 o 24, e in moltissimi abbiamo un aneddoto da raccontare, un ricordo che ci riporti al “dove eravamo e cosa stavamo facendo” quando Kobe Bryant vinceva un titolo, segnava 81 punti in una singola partita, si ritirava mettendone 60 con 50 tiri.

Kobe Bryant ha giocato per venti stagioni nella Nba, sempre con i Los Angeles Lakers. Ha vinto per cinque volte il campionato, nel 2000, 2001, 2002, 2009 e 2010 (Harry How/Getty Images)

L’irreale minuto di silenzio che ha preceduto la gara tra Rockets e Nuggets, Raptors e Spurs che decidono di non giocare i primi due possessi facendo scorrere il cronometro dei 24 secondi, rappresentano la reazione naturale e immediata nei confronti di un mondo che non eravamo pronti a immaginare, e di fronte al quale ci sentiamo svuotati e impreparati, privati di un punto di riferimento che, come ha scritto il commissioner Adam Silver nel suo comunicato, «verrà ricordato per aver ispirato le persone di tutto il mondo a competere al massimo delle proprie possibilità».

«All I was thinking in the back of my mind was Mamba Mentality”: lo disse Kyrie Irving dopo aver messo il tiro che consegnò ai Cleveland Cavaliers il titolo del 2016 al termine di gara 7 contro i Golden State Warriors. Lo pensa oggi il mondo, che dovrà imparare a fare a meno di Kobe Bryant pur non essendo pronto a farlo. Ma difficilmente lo sarebbe mai stato.