Gli occhi dei quasi 15mila spettatori della Rod Laver Arena di Melbourne sono tutti sulla racchetta di Serena Williams. Sta servendo per annullare il terzo match point di Wang Qiang. È un servizio in kick, la palla salta e non è troppo angolata. Wang la rimanda dall’altro lato senza difficoltà né pretese. Serena ha già programmato un rovescio lungolinea per muovere l’avversaria a fondo campo. Sembra arrivare bene all’impatto, ma ne esce un colpo piatto, basso, sporco: finisce in rete. Game, set, match. Serena Williams esce dagli Australian Open al terzo turno, pareggiando il record negativo del 1999 e del 2016, sconfitta in tre set (6-4 6-7 7-5) dopo una partita in cui ha fatto enorme fatica: 56 errori non forzati e un solo break conquistato su 6 possibili palle-break (peraltro contro un’avversaria che appena 4 mesi fa aveva liquidato in 45 minuti concedendole solo 15 punti). Deve rinviare ancora una volta l’appuntamento con la storia, con il 24esimo Slam, record che appartiene a Margaret Court e che Serena vede lì, a un trofeo di distanza.
Il tempo le gioca contro. A 38 anni, dopo una gravidanza che l’ha quasi uccisa, dopo una carriera vincente ma estenuante, Serena Williams è stanca. Non è più la tennista devastante che è stata per oltre vent’anni (ha vinto trofei in quattro decadi diverse, dagli anni ‘90 agli anni ‘20 del Duemila). Non può più esserlo. Ma pensare che questo possa fermarla è semplicemente ridicolo. La scorsa estate, dopo la sua eliminazione a Wimbledon, una grande tennista del passato come Billie Jean King le aveva suggerito di «concentrarsi maggiormente sul tennis e meno su tutte le altre cose straordinarie che sta facendo» per raggiungere il record di Margaret Court, alludendo al fatto che tutti gli impegni extra sportivi le tolgono tempo ed energie. Al di là della rivalità storica tra King e Court, e dell’assurdità di una frase del genere pronunciata da chi per tutta la vita si è comportata per essere attivista politica e paladina dei diritti civili fuori dal campo, quel che conta oggi è la risposta di Serena Williams. «Il giorno in cui smetterò di lottare per l’uguaglianza e per tutte le persone come te e me sarà il giorno in cui sarò nella mia tomba». Perché il tennis è solo una parte del suo lavoro, della sua quotidianità, della sua vita. Serena Williams non è solo una sportiva professionista. Serena Williams è more than an athlete.
Alla sua immagine di tennista fenomenale, tra le migliori di sempre, Serena ha sempre aggiunto altro. Non tanto e non solo per la sua attività imprenditoriale, che l’ha portata ad essere il volto di molti brand (Nike, Delta Air Lines, Gatorade, Pepsi tra gli altri) e, con la sorella Venus, anche socia di minoranza dei Miami Dolphins, franchigia di NFL. Serena ha scelto di essere megafono per chi non aveva voce facendo dello sport un mezzo, un veicolo per trasmettere un messaggio che avesse un impatto a livello culturale, sociale, politico. E nel suo caso è una battaglia che ha un valore simbolico ancora maggiore, perché il tennis è uno sport tradizionalmente elitario, classista, con una storia piena di episodi di discriminazione. Episodi che la stessa Serena Williams ha vissuto anche in prima persona e che ha trasformato in battaglie pubbliche. Non perché si senta martirizzata, ma perché se lei, la numero uno, può essere colpita, allora altri atleti, altri cittadini possono facilmente essere schiacciati.
Ne è un esempio il messaggio che ha lanciato sui suoi profili social nel 2016, in un periodo di grandi tensioni tra le forze dell’ordine e la comunità afroamericana, partendo proprio da un momento della sua giornata: «Ho chiesto a mio nipote di 18 anni (per essere chiari: è di colore…) di accompagnarmi a fare alcune commissioni e l’ho lasciato guidare. A un certo punto a lato della strada vedo un’auto della polizia. È un flash di secondi, guardo che non superi il limite di velocità. Mi torna alla mente l’orribile video di quella ragazza che ha visto un poliziotto sparare al suo ragazzo mentre era in macchina con lui. Neri loro, neri noi. Mi rimprovero di avere chiesto a lui di guidare. Non potrei mai perdonarmi se dovesse accadergli qualcosa. Sono secondi infernali. Ma perché nel 2016 siamo costretti a vivere una situazione come questa?».
Come in questo messaggio, spesso le parole di Serena muovono l’attenzione su temi delicati e attuali, sfruttando la sua immagine di atleta di successo come cassa di risonanza. Un altro esempio è la disparità di salario tra uomini e donne a parità di lavoro. Ne aveva parlato in una lettera pubblicata su Fortune il 31 luglio 2017, in occasione del Black Women’s Equal Pay Day. «A parità di impiego, se gli uomini guadagnano un dollaro le loro colleghe solo 80 centesimi. Anzi, 80 centesimi le donne bianche. Le colleghe nere solo 63». Anche qui, la sua è nata come una battaglia personale per diventare molto di più: «Mi è stato detto che non potevo realizzare i miei sogni perché ero una donna e per colpa del colore della mia pelle. Ma non riguarda me, riguarda gli altri 24 milioni di donne nere in America. Se non avessi avuto talento sarei nella loro posizione, e questo non lo dimentico mai».
Sfruttando la visibilità che si è guadagnata nel mondo del tennis, Serena è diventata ambasciatrice di numerosi progetti: dal sostegno all’imprenditoria femminile alle campagne contro la violenza sulle donne, dalla sensibilizzazione sulla prevenzione del cancro al seno alla presa di posizione contro il body shaming. L’ultima, in ordine cronologico, l’abbiamo vista dopo il torneo di Auckland: ha donato l’intero Prize Money al fondo contro gli incendi in Australia (si era già visto un piccolo gesto di solidarietà durante il torneo, con un koala dipinto sulle unghie). Inoltre ha firmato e messo all’asta per beneficenza l’abito che ha indossato al primo turno del torneo. La sua attività extrasportiva è riconosciuta in tutto il mondo e ha sempre camminato di pari passo con i suoi risultati sul campo. Al punto che le sue due anime, quella dell’atleta simbolo di più di una generazione e di attivista, si sono mescolate in uno degli spot pubblicitari più riusciti degli ultimi anni.
La definizione di spot motivazionale
Il messaggio che ha diffuso Nike nel febbraio 2019, Dream Crazier, è dedicato alle conquiste delle donne nello sport, con la follia – quella sana incoscienza che ti permette di andare oltre ogni limite – a fare da connettore per tutte le immagini. La voce non poteva che essere quella di Serena, simbolo della capacità di abbattere muri alzati da altri: «Se pensano che i tuoi sogni siano folli, mostra loro cosa possono fare davvero dei sogni folli. Se siamo troppo brave c’è qualcosa di sbagliato in noi».
Se c’è una sportiva che può personificare il concetto di superamento degli ostacoli questa è proprio Serena Williams. Fin dall’inizio della carriera, con sua sorella Venus, ha avuto difficoltà doppie ad emergere nel tennis. Se oggi è riconosciuta come uno degli sportivi più forti in attività, anche dai suoi detrattori, nei primi anni ha dovuto affrontare ostilità provenienti da più direzioni: alcuni consideravano il suo modo di giocare inadeguato per le vette del tennis mondiale, altri rigettavano l’idea di due sorelle così forti e così pericolosamente vincenti, ad altri ancora semplicemente non andava a genio che una tennista afroamericana potesse scalare tutti i gradini del ranking. Come ha spiegato Tera Hunter sul New York Times in un pezzo dal titolo inequivocabile, (“The Power of Serena Williams”), «i risultati raggiunti da lei e sua sorella vanno ben oltre i titoli in bacheca. Hanno aperto la strada alla generazione successiva di giocatrici nere, come Taylor Townsend, Sloane Stephens, Madison Keys, Naomi Osaka e Coco Gauff, dando loro la possibilità di ritagliarsi un ruolo da star di uno sport in cui l’élite è storicamente bianca». Serena lo ha sempre saputo: ha riconosciuto in se stessa questo potere e ha capito che essere la tennista migliore del mondo non le bastava. Doveva essere qualcosa di più, more than an athlete.