Regolamentare l’estetica nel calcio è un bene?

Dalla prossima stagione, la Serie A potrebbe adottare regole condivise per le maglie da calcio.

Le anticipazioni si sono rincorse, e poi moltiplicate, e quindi riprese a livello internazionale. Dal prossimo anno, la Serie A dovrebbe seguire l’esempio di altri campionati – Premier League in primis – nell’adottare scelte stilistiche sulle divise da gioco che siano omogenee. In particolare, le nuove direttive dovrebbero riguardare l’adozione di un unico font di riferimento e il divieto per gli sponsor di maglia di comparire all’interno di box specifici.

Nel primo caso, la Serie A farebbe proprio un sistema già utilizzato in altri campionati, come la Premier League o la Liga, per uniformare numeri e lettere delle maglie di ogni squadra. Da un lato sarebbe uno dei fondamenti nella costruzione del brand della Serie A, dall’altro sarebbe un freno a quei font non proprio riusciti se non addirittura illeggibili – quello del Chievo, negli anni, ne è stato un esempio perfetto. La seconda introduzione riguarderebbe direttamente la resa estetica delle maglie da calcio: capita che i box contenenti gli sponsor abbiano colori contrastanti con quelli della divisa – come nel caso del Napoli, che dal 2005/06 sulle maglie azzurre ingloba sul petto il rettangolo rosso dello sponsor Lete. Negli anni, molte squadre hanno scelto autonomamente di eliminare la soluzione del box, come la Juventus per il logo di Jeep.

La reazione immediata è inevitabilmente positiva, perché la Serie A per troppo tempo è stata tacciata di mancare di direzione artistica, per così dire: il prodotto calcistico, nell’era del Ventunesimo secolo, non può prescindere da un’esperienza estetica piacevole e coinvolgente. E così, in tempi di stadi vetusti, restituire un’idea di cura della propria immagine non solo è consigliato, ma anche obbligatorio. In questo senso, ancora, l’introduzione a inizio stagione del nuovo logo della Serie A, che ha scelto così di rebrandizzarsi, risponde pienamente a questa esigenza.

Vale la pena però andare oltre. Perché, se è vero che in Italia la bruttezza estetica nel calcio è stata certo frequente, d’altro canto non è detto che frenare la libertà creativa sia per forza un bene. Cominciamo dai font: la Serie A, come la Liga in passato, vuole accodarsi alla Premier League non perché quella regola ha determinato qualcosa nel successo del campionato inglese, ma perché la Premier è diventato il benchmark di riferimento per tutti. La realtà è che non basta copiare o scimmiottare il campionato di Sua Maestà per pareggiarne prestigio e attenzione mediatica. La Premier adotta il font unico per i suoi club dal lontano 1997, perché sin dai suoi primi anni ha scelto la strada di controllare pedissequamente ogni dettaglio. Ad esempio, se un club vuole indossare in una o più partite una maglia speciale o celebrativa – non registrata dunque a inizio anno – l’iter in Premier è decisamente più complicato. E non siamo certi che si tratti di un bene.

Nel caso dei loghi non più delimitati dai box, come detto in precedenza il pensiero corre immediatamente al Napoli. Il contrasto tra il rosso dello sponsor e l’azzurro della maglietta resiste da oltre 15 anni, e più volte tifosi e addetti ai lavori hanno espresso le loro perplessità. Non per forza, però, il problema sta nel box – l’effetto non sarebbe altrettanto gradevole se il lettering di Lete fosse in rosso, senza il riquadro. Basti pensare alla terza maglia dell’Inter di quest’anno, che ha avuto consensi unanimi: lo sponsor Pirelli, che per la prima volta nella storia di sponsorizzazione del club appare nella sua identità visiva originale, si staglia alla perfezione in un rettangolo al centro della maglia – con il giallo che richiama gli accenti dello stesso colore posti come finiture di maniche e colletto.

Del resto, anche gli sponsor hanno giocato un ruolo importante nel rendere immortali certe maglie da calcio. Qualche esempio? La maglia anni Novanta del Newcastle ha a lungo inglobato il logo della birra locale Newcastle Brown Ale – un cerchio con stella blu su fondo giallo e scritte in rosso. Il tutto, su una divisa a strisce bianconere. Per quanto l’accostamento potesse risultare ardito, non ha certo penalizzato il successo di quella maglia. Altro esempio, tutto italiano: tra il 1997 e il 1999 il logo – in un box – biancorosso di Nintendo compariva sul viola delle divise della Fiorentina. Come nel caso dell’odierna terza maglia dell’Inter, il fatto che il bianco e il rosso dello sponsor comunicassero con quelli presenti nello stemma societario e nelle bande presenti lungo le spalle dava nel complesso un effetto assolutamente riuscito. Senza il riquadro, la resa sarebbe stata di certo inferiore e meno impattante.

A volte è casualità, altre un disegno consapevole: fatto sta che non è detto che la regolamentazione estetica del calcio possa portare a risultati migliori. Anzi, il successo dei design degli anni Novanta nasceva proprio da una libertà creativa maggiore, e con le regole divenute maggiormente stringenti nel corso degli anni la risposta dei brand è stata quella di andare sul sicuro con i template. Ora il panorama è finalmente e fortunatamente cambiato, eppure certe brillanti intuizioni dei designer ancora oggi vengono penosamente penalizzate da alcune regole fin troppo rigide. Per esempio, nei match europei la Roma non può vestire la sua terza maglia come originariamente progettata: la Uefa non permette la presenza di due loghi diversi sulla divisa, e così i giallorossi (in blu) non possono conservare la fantasia traslucida in cerchi nei quali compaiono il monogramma ASR e il lupetto di Gratton – conservando solo quest’ultimo. Le maglie belle e brutte continueranno a esistere, a prescindere dalle regole che si vorranno applicare o meno. Forse dovremmo fidarci di più dei designer, e smetterla di ingabbiarli in un perimetro di paletti asfissianti.