In Sud America sta cambiando il modo di intendere il calcio?

Jorge Jesus al Flamengo, Gallardo al River, Tiago Nunes al Corinthians, e non solo: una nuova onda di allenatori sta portando una nuova identità tattica in Brasile e Argentina.

Quando Jorge Jesus è sbarcato in Brasile, al Flamengo, con un contratto pesante almeno quanto la sua reputazione, una parte rilevante dell’opinione pubblica brasiliana si è subito risentita delle voci entusiastiche che lo stavano accogliendo, e lo ha gelato: «Un conto è chiamare stranieri come Guardiola o Mourinho, ma Jorge Jesus non ha nulla in più degli allenatori che abbiamo qui in Brasile», ha detto in una trasmissione di Fox Sports l’ex giocatore del Vasco Carlos Alberto. In sei mesi, Jorge Jesus ha demolito ogni pregiudizio di stampa e colleghi, lasciando completamente nudo il movimento calcistico brasiliano davanti alle proprie debolezze.

Nel 2018, il Palmeiras di Felipe Scolari aveva vinto il Brasileirão con una squadra presa in corsa, con una rosa di indiscutibile valore, giocando un calcio reattivo. A metà 2019 era ancora in vetta con ben otto punti di distacco dal Flamengo allora allenato da un altro santone del futebol locale, Abel Braga. Con l’arrivo di Jesus, a giugno, il Flamengo  – squadra quasi identica a quella dell’anno precedente – si è abbattuto come un sisma sul campionato brasiliano, e ha ribaltato completamente ogni gerarchia, vincendo il titolo con 16 punti di vantaggio sulla seconda. Il Flamengo aveva iniziato ad aggredire con intensità incredibile i suoi avversari, a utilizzare le punte su tutto il fronte, anche in rifinitura, a dominare con un possesso a tutto campo, continuo ed elaborato, alla ricerca di spazi da riempire con palle in verticale. Era una squadra abbagliante, fin da subito.

A chi glielo ha fatto notare, Mano Menezes, ex ct della Seleção con idee molto lontane dall’iper-offensivo stratega di Amadora, ha risposto stizzito: «Ci sono allenatori che stanno facendo un ottimo lavoro e sono brasiliani. Non possiamo pensare che il calcio brasiliano sia iniziato ora». Il calcio brasiliano non è iniziato con Jorge Jesus, ma forse ha trovato in lui e nelle sue vittorie un pretesto per ricordarsi di due tratti caratteristici del proprio Dna: l’urgenza di essere protagonisti in campo e la storica predisposizione a ricevere contaminazioni dall’estero.

Dalla diffidenza si è quindi passati all’emulazione, come nel caso del Santos, che ha riproposto l’idea di portare in Brasile una figura capitale del calcio portoghese come Jesualdo Ferreira, il maestro che ha fatto le fortune del Braga e del Porto, di cui le generazioni successive di allenatori lusitani, da Fonseca a Nuno Espirito Santo, sono debitori. Dopo un inizio faticoso, con poco tempo per lavorare, materiale risicato e l’ingombrante ombra di un altro straniero dalle idee forti come Jorge Sampaoli – che ha abbandonato il Santos dopo una stagione sorprendente, per gioco e risultati – però, pare che la dirigenza del Santos abbia preso in considerazione l’ipotesi di un esonero, a dimostrazione di quanto, a prescindere dalle intenzioni, sia spesso difficile per gli allenatori costruire un progetto tecnico stabile in Sudamerica.

Un campionato Paranaense nel 2018, una Coppa del Brasile nel 2019: alla sua prima esperienza in una squadra di Série A, Tiago Retzlaff Nunes, classe 1980 anche se non si direbbe, ha stupito tutto il Brasile (Lucas Uebel/Getty Images)

È un passo avanti deciso, invece, quello del Corinthians, un club identificato a livello popolare con l’agonismo, più che con la ricercatezza dello stile, che in questo momento sta lavorando per cambiare volto. Negli ultimi dieci anni, i successi del club sono nati da proposte più solide che audaci, come quella del primo Tite – che, al contrario di molti colleghi, ha saputo rinnovarsi fino a diventare uno dei migliori allenatori del mondo – di Mano Manezes e Fabio Carille, criticato per l’estrema passività del suo ultimissimo Timão, in una stagione conclusa all’ottavo posto. Il presidente Andrés Sanchez ha deciso di ricostruire la propria squadra partendo dal migliore della nuova generazione di tecnici brasiliani, il 39enne Tiago Nunes, che negli ultimi due anni ha vinto all’Athletico Paranaense i due titoli più importanti della storia del club con una proposta estremamente interessante. Al Corinthians ha ricevuto carta bianca per costruire una squadra ugualmente propositiva e dominante, anche a costo di voltare pagina in maniera traumatica; la sua prima mossa è stata annunciare il mancato rinnovo dell’idolo della torcida Ralf, mediano 35enne con alle spalle più di quattrocento presenze nel Corinthians, perché stava costruendo un centrocampo con obiettivi diversi, e necessitava di caratteristiche diverse. Al posto di un volante forte nelle letture e nel recupero palla, Nunes ha messo al centro del campo un suo uomo di fiducia all’Athletico, Camacho, accompagnato dall’architrave su cui ha deciso di fondare il nuovo Corinthians, il colombiano Victor Cantillo, che gioca palla sempre in verticale, rompe le linee e permette di dominare offensivamente l’azione. Fin dalla prima amichevole, si è vista una squadra diversa, insistente nell’uscita bassa, nel pressing e nel fraseggio: nonostante l’eliminazione ai preliminari di Copa Libertadores, il Timão ha il potenziale per essere un protagonista nel presente come nel futuro.

In Argentina, invece, c’è una nouvelle vague di allenatori giovani, totalmente calati nella loro epoca, che stanno ottenendo risultati con stili di gioco molto riconoscibili. La maggior parte dei nuovi tecnici rioplatensi sono stati influenzati da Marcelo Bielsa, che ha offerto all’Argentina la porta più vicina per la modernità. L’influenza del Loco sta nell’aver messo in secondo piano la desueta dicotomia tra menottisti e bilardisti, imponendo la sua personale terza via calcistica a cui hanno attinto in tantissimi, a ogni latitudine, Pep Guardiola compreso. Le diverse sfumature del nucleo di idee su cui si basa il suo calcio hanno dato vita a personaggi come Jorge Sampaoli (insieme a Bielsa e, più alla lontana, allo jugoslavo Mirko Jozic, campione d’America nel ’91 con il Colo Colo, è il motivo per cui oggi, in Cile le squadre più competitive giocano un calcio intenso e di proposta), a Gabriel Heinze, dt di un Vélez spettacolare per integrità tattica, coraggio e costanza con cui mette in atto un gioco non meno intenso, limpido e, perché no, esteticamente appagante di quello del River, fino a Sebastian Beccacece, il tecnico scelto da un manager con esperienza europea come Milito per il suo Racing. Allenatori diversi, ma uniti da una ricerca costante dell’intensità, del recupero più o meno immediato del pallone, di un uso insistente e intelligente del possesso e degli spazi. Tutti tecnici molto esigenti, che per allenare un giocatore sentono prima il bisogno di convincerlo a sposare la loro idea, e la perseguono con una preparazione atletica e tattica superiore alla media.

Gallardo ha esordito come allenatore sulla panchina del Nacional, vincendo subito il campionato uruguaiano, poi con il River ha vinto tantissimo: Copa d’Argentina per tre volte, Supercopa Argentina, Copa Sudamericana, Recopa Sudamericana ancora tre volte, doppietta in Libertadores. Ma non è mai riuscito ad arrivare primo in campionato (Marcos Brindicci/Getty Images)

In altre parole, sono allenatori che stanno colmando con metodo e idee il gap tra Sudamerica ed Europa, dando vita a progetti tecnici ben strutturati che molto probabilmente avranno modo di proporre anche sull’altra sponda dell’Oceano. In Primera División, oltre ai figli più o meno diretti del bielsismo ormai esportato anche oltre i confini, Diego Dabove ha portato nelle posizioni di vertice un Argentinos Jrs organizzatissimo e intenso in entrambe le fasi, Luis Zubeldia è tornato a far parlare di sé con un Lanús giovane, propositivo e forte a costruire sulle fasce, mentre Hernán Crespo sta per esordire in Copa Libertadores con un Defensa y Justicia che gioca a memoria già dalla gestione di Mariano Soso e che sta ulteriormente migliorando.

Infine c’è Marcelo Gallardo, il fuoriclasse della sua generazione. Nei suoi sei anni di vittorie, ha piegato le continue e consuete raffiche di imprevisti a cui il contesto sudamericano lo ha sottoposto, riuscendo a conservare un’identità limpida e inviolabile per il suo River Plate. La lezione che non è la vittoria a fare l’identità, ma l’identità a fare la vittoria la sta assimilando indirettamente anche il Boca, dopo gli ultimi superclassici giocati a una porta soltanto. Gli Xeneizes non sono tradizionalmente inclini alla ricercatezza nello stile, ma Riquelme ha richiamato Miguel Ángel Russo – l’ultimo allenatore ad aver vinto la Copa Libertadores con il Boca nel 2007 – per provare a restituire protagonismo e possesso a una squadra reduce da una stagione negativa: la formula per vincere una partita di calcio non è ancora stata scoperta, ma in questo momento storico, sia l’élite del calcio europeo che quella del calcio sudamericano sono sempre più orientate alla ricerca del protagonismo.