Quattro allenatori che vorremmo vedere in Serie A

Nagelsmann, Sergio Conceição, Guardiola, Simeone.

In un’intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport pochi mesi dopo aver lasciato l’Inter, José Mourinho definì il suo arrivo in Italia come «uno shock culturale». Per sua stessa ammissione, queste parole erano legate alla difficoltà della battaglia tattica che si combatte ogni weekend nel nostro campionato: «La Serie A non si può paragonare a nessun altro campionato. In Inghilterra, una squadra preparata bene tatticamente vince. In Italia non esiste una sola squadra, anche la più piccola, che vada a San Siro e non sappia difendersi bene. A livello strategico è un campionato che arricchisce un allenatore».

Questo primato di complessità tattica è ovviamente virtuale, autoreferenziale, non dimostrabile. Solo che esiste pure nel racconto di allenatori come Mourinho, che hanno lavorato in Serie A ma anche in altri campionati. Proprio per questo, ora, andrebbe alimentato con una nuova fase di contaminazione, con integrazioni provenienti dall’estero. Facciamoci caso: molto spesso presentiamo allenatori italiani come se fossero stranieri, li definiamo appunto “non italiani” proprio perché hanno rivolto o rivolgono il loro sguardo fuori dall’Italia per costruire la loro visione.

Perciò abbiamo individuato quattro professionisti che vorremmo proprio vedere in Serie A, il loro impatto sarebbe utile perché porterebbe strumenti e significati diversi, mai visti prima, così la nostra secolare battaglia tattica potrebbe continuare con un codice cavalleresco sempre più aggiornato, sempre più moderno, e poi i nostri tecnici non avrebbero più bisogno di guardare all’estero per allargare le loro conoscenze, sarebbero a contatto diretto, occhi negli occhi, con dei nuovi potenziali ispiratori.

Julian Nagelsmann

Prima del match d’andata degli ottavi di finale di Champions League contro il Tottenham, il tecnico del Lipsia Julian Nagelsmann ha rilasciato un’intervistaThe Independent. Da un punto di vista giornalistico, la parte più significativa delle sue dichiarazioni riguarda la spiegazione del suo rifiuto al Real Madrid: «Volevo ancora crescere, svilupparmi come allenatore. Non volevo essere costretto a pensare solo a come vincere le partite e i trofei senza avere margine di errore». Nella stessa intervista, però, c’è una parte che forse è ancora più importante, perché spiega e integra e amplia il discorso di Nagelsmann sulla crescita personale: «Quando ho affrontato la Champions League per la prima volta con l’Hoffenheim, ho capito che avevo bisogno di maggiore stabilità in campo. Schieravo troppi giocatori offensivi, in Bundesliga puoi permetterti di mettere cinque o sei giocatori che pensano soprattutto ad attaccare, ma in Europa no, non puoi farlo».

Nagelsmann, dunque, è un allenatore più equilibrato di quanto si pensi. Certo, resta giovane e radicale e visionario, il suo Lipsia è una squadra che cerca di tenere ritmi supersonici, che esaspera concetti come pressing, contropressing, ricerca della verticalità, Jonathan Wilson ha scritto sul Guardian che «anche grazie a Nagelsmann, oggi una partita di Bundesliga non è più percepita come una serie di sfide individuali, piuttosto è un’occasione per dominare il gioco attraverso il pressing». Nello stesso articolo, però, si legge anche che «tutto ciò che fa Nagelsmann è finalizzato a uno scopo: ci sono aggiustamenti per ogni partita, per ogni nuovo giocatore, tutto è pensato in funzione del futuro ma è anche memoria del passato».

Julian Nagelsmann ha avuto una breve carriera da calciatore, nelle giovanili del’Augsburg e poi del Monaco 1860. Si è ritirato per una terribile sequenza di infortuni alle ginocchia (Catherine Ivill/Getty Images)

L’arrivo in Serie A di Nagelsmann determinerebbe tre rivoluzioni diverse: un allenatore 32enne – prima rivoluzione – importerebbe in Italia un’idea di calcio estrema, mai davvero sperimentata nel nostro campionato – seconda rivoluzione. Il suo idealismo, però, è negoziabile, è parzialmente in vendita sul mercato dell’automiglioramento, della crescita personale. Il pragmatismo di Nagelsmann esiste, solo che non è prono al risultato ma alla conoscenza, all’ampliamento delle esperienze. Julian vuole che lui e il mondo intorno a lui progrediscano insieme, un po’ come succede a Matt Damon/Will Hunting e Robin Williams/Sean McGuire in Good Will Hunting, un film del 1997 in cui un giovane genio della matematica dai capelli biondi – c’è qualche similitudine, vero? –,  scontroso ed autoemarginato dalla società, trova la sua strada grazie all’incontro con uno psicologo – e intanto lo stesso psicologo capisce di poter avere una nuova vita dopo la morte dell’amata moglie. La terza rivoluzione potrebbe essere questa, con Nagelsmann nella parte di Will Hunting e il calcio italiano che, dall’interno, vedrebbe sgretolarsi alcune certezze che sembravano inscalfibili.

Quale squadra sarebbe giusta per lui
Una che vuole puntare su giocatori giovani, che da anni è alla ricerca di una nuova identità tattica, un’identità stabile e da portare avanti nel tempo, senza però la pressione di dover vincere subito. Il Milan, allora, potrebbe essere la destinazione ideale per Nagelsmann. Solo che i rossoneri davvero sembrano vicini all’assunzione di Rangnick, che di mestiere fa l’Head of sport and development soccer del gruppo Red Bull, praticamente è l’attuale superiore di Nagelsmann.

Sérgio Conceição

Indizio numero uno: «Amo il calcio realistico». Indizio numero due: «L’unico modo per essere certi di far punti è non prendere gol». La prossimità ideologica di Sérgio Conceição con il calcio italiano è dentro queste parole, è già molto evidente, non c’è bisogno di trovare un terzo indizio. Merito (o colpa, a seconda dei punti di vista) del suo percorso come calciatore, dai ventitré ai trent’anni Conceição ha giocato in Serie A, nella Lazio, nel Parma, nell’Inter, era impossibile che il suo modo di intendere il gioco non venisse contaminato.

La realtà, però, va oltre questa sua esperienza. La scuola degli allenatori portoghesi è una delle più influenti a livello mondiale perché è in grado di formare dei professionisti bravissimi, questo è ovvio, ma anche molto diversi tra loro: Jorge Jesus sta depredando il Sudamerica (dopo aver depredato per anni il Portogallo) con un calcio intenso, ambizioso in tutte le fasi di gioco; Mourinho, quando ha vinto, l’ha fatto grazie a una rivoluzione dei metodi di allenamento e del rapporto emotivo tra la figura dell’allenatore e il pubblico, i media, gli avversari, gli arbitri; Nuno Espirito Santo e Paulo Fonseca guidano Wolverhampton e Roma, due esperimenti tattici davvero interessanti da seguire in Premier e in Serie A; ci sarebbero anche altri tecnici molto promettenti, per esempio Rúben Amorim e Bruno Lage. E poi c’è Conceição, che ha deciso di occupare lo slot culturale dell’allenatore funzionale, che si adatta a ogni situazione.

Prima di arrivare sulla panchina del Porto, Conceição ha guidato l’Olhanense, l’Académica, il Braga, il Vitória Guimarães e il Nantes (Patricia De Melo Moreira/AFP via Getty Images)

Ha vinto il titolo al primo anno sulla panchina del Porto, nel 2018. Allora la sua squadra praticava un calcio verticale, ipercinetico, poi però sono cambiate un po’ di cose, il club di Pinto da Costa ha concluso 70 operazioni di mercato complessive – fonte Trasnfermarkt – e allora Conceição ha dovuto fare di necessità virtù. Nella scorsa stagione ha lasciato il titolo nazionale al Benfica ma ha anche raggiunto i quarti di finale di Champions, ora è di nuovo al primo posto in classifica con 60 punti accumulati in 24 partite grazie a un approccio ancora più elastico rispetto al passato: il 4-4-2 di riferimento è stato spesso alterato, il Porto cerca sempre di tenere ritmi indiavolati, di pressare altissimo, ma è pure una squadra capace di gestire il pallone e le proprie energie – non a caso è al primo posto per possesso palla medio (57%) in Primeira Liga. E allora lo sbarco di Sergio Conceição in Italia sarebbe un’operazione di irredentismo al contrario, un allenatore che è in grado di ridisegnare e condurre in porto una squadra di alto livello nonostante le mareggiate alte del calciomercato potrebbe essere un acquisto importante per un torneo come il nostro, in cui i risultati hanno il potere di esaltare o cancellare qualsiasi cosa, in un istante, senza dare troppo peso all’idea di progettualità. Perché si può sempre imparare a essere (ancora più) pragmatici, anche da uno che arriva dall’estero, che è cresciuto calcisticamente in Serie A ma poi ha costruito un metodo diverso, più moderno, e quindi magari varrebbe la pena provare.

Quale squadra sarebbe giusta per lui
La storia d’amore tra la Lazio e Simone Inzaghi sembra destinata a non finire mai, però prima o poi arriverà il momento dell’addio. E allora si aprirà uno squarcio nell’iperspazio, il centro di Formello imploderà, disgregandosi in diciotto milioni di pezzi. Se noi e la Lazio dovessimo superare questa crisi di rigetto spontaneo della natura, un solo uomo potrebbe risolvere la situazione: Sérgio Conceição, il pragmatico.

Pep Guardiola

Uno degli aspetti più interessanti e sottovalutati della carriera di Guardiola è la sua tendenza alla ricerca, al cambiamento. Molto spesso, il nostro amore per la semplificazione del calcio e del mondo ci porta a pensare a lui come “semplice” inventore del Tiqui-Taca, al possesso palla orizzontale e sincopato come unico tratto caratteristico delle sue squadre.

Certo, pure durante le sue esperienze con il City e con il Bayern il tecnico catalano ha dimostrato come l’idea di gestire perennemente il pallone sia alla base della sua visione calcistica. Solo che il suo trasferimento in Germania e poi in Inghilterra ha spinto un giornalista spagnolo, Martí Perarnau, a scrivere due libri (questo e questo) sulle modifiche pensate e attuate da Pep per adattare il suo modello a dei nuovi giocatori. Come dire: se qualcuno ha trovato tanti concetti da poter riempire più di 800 pagine, allora vuol dire che qualcosa deve essere cambiato per forza dai tempi di Barcellona, che il Tiqui-Taca di oggi, se esiste, è necessariamente diverso rispetto a quello di ieri.

La Coppa di Lega vinta a Wembley lo scorso primo marzo, terza consecutiva per il City, è il 31esimo titolo della carriera da allenatore di Guardiola (Glyn Kirk/AFP via Getty Images)

L’approdo di Pep Guardiola in Italia sarebbe un evento interessante su due livelli, il livello-Guardiola e il livello-Italia. E cioè: quale sarebbe l’approccio di Pep ai ritmi, allo stile, alle reticenze – culturali, mediatiche, emotive – della Serie A? E poi, più in profondità: dopo aver influenzato il calcio mondiale con il suo Barcellona, dopo aver trasformato il calcio tedesco partendo dal Bayern, dopo aver contaminato sé stesso e il calcio della Premier con la sofisticatezza del suo sistema in un contesto a intensità estrema, come reagirebbe l’Italia al suo impatto? In pratica, Guardiola in Serie A sarebbe l’inizio di una corsa per stabilire chi cambierebbe per primo, o di più, tra noi e lui. L’esito di questa corsa sarebbe inevitabilmente sorprenderebbe, perché alcuni luoghi comuni, da una parte o dall’altra, sarebbero destinati a sgretolarsi. E così Martí Perarnau avrebbe materiale a sufficienza per un terzo libro, vuoi mettere?

Quale squadra sarebbe giusta per lui
Solo Juventus e forse l’Inter, almeno in questo momento, potrebbero pensare di avvicinarsi a Pep ed essere credibili, almeno un po’. Proprio in virtù di quello che c’è scritto sopra, però, sarebbe bello capire cosa potrebbe fare Guardiola, a Torino o a Milano, con certi calciatori, con uomini così diversi da quelli che ha allenato finora, fin dove potrebbe spingersi la sua mania di sperimentazione con Bonucci, de Ligt, Bastoni, Barella, Bentancur, oppure con Cristiano Ronaldo, Dybala, Lukaku, Lautaro.

Diego Simeone

È l’unico della lista per cui si tratterebbe di un ritorno. Solo che Simeone, oggi, è molto più dell’allenatore che salvò il Catania nella stagione 2010/11, pochi mesi prima di capire che l’Atlético Madrid, dopo averlo accolto come allenatore, sarebbe stato il suo habitat naturale anche come tecnico. In questi dieci anni, l’ex centrocampista di Inter e Lazio ha fondato un movimento filosofico, ha creato un nuovo modo di intendere e vivere e far vivere il calcio, con lui lo sport diventa un patto di sangue tra uomini che consegnano il loro corpo alla sua filosofia, un evento quasi esclusivamente emotivo, identitario.

Non è un caso che proprio questa stagione, quella in cui i Colchoneros hanno provato e stanno provando a essere e fare qualcosa di diverso, i risultati siano un po’ deludenti: appena è stato messo in discussione il primato della difesa, dell’aggressività a tutti i costi, della qualità offensiva da attivare in transizione, l’Atlético Madrid è tornato a essere una squadra normale. Simeone si è esaltato di nuovo solo quando i suoi uomini sono tornati al passato, nella notte del 18 febbraio, contro il Liverpool il Wanda Metropolitano è stato di nuovo un’arena infuocata, un alveare a supporto di un’idea, un’idea di lotta e condivisione dello sforzo in cui i tifosi non sono solo coreografici, piuttosto fanno parte di un sistema intimidatorio, contribuiscono a limitare gli avversari.

Prima di approdare all’Atlético Madrid, nel 2011, Simeone ha guidato quattro club in Argentina (Racing Club, Estudiantes, River Plate e San Lorenzo) e il Catania (Pierre-Philippe Marcou/AFP via Getty Images)

Anche quella di Simeone è un’idea di gioco, per quanto apostrofata – da molti, non da tutti – con accezione negativa. E allora il ricongiungimento con quella che è considerata la patria del calcio speculativo rappresenterebbe un’occasione per tutti: Simeone troverebbe un luogo in cui la sua religione potrebbe essere compresa come è avvenuto a Madrid, anzi potrebbe addirittura alimentare il culto del sé e del risultato; la Serie A, poi, potrebbe conoscere un nuovo modo di giocare (ancora più) in difesa, una proiezione dei propri pregi e dei propri difetti, potremmo assistere a uno scontro come quello del meme dei due Spiderman uguali che si affrontano, per poi scoprire che magari potrebbero pure unire le forze e fare la storia, che poi per riuscirci non c’è bisogno di una bella calligrafia, ma solo di scrivere molto forte, così che sia indelebile.

Quale squadra sarebbe giusta per lui
Negli ultimi anni, solo il Napoli-di-Sarri è riuscito a creare una perfetta identificazione filosofica e filologica tra pubblico, calciatori, allenatore, esperienza di gioco. Magari Simeone potrebbe riaccendere un legame simile pur partendo da contenuti e gusti completamente diversi. È vero che il Cholo sogna sempre (o ancora) di allenare l’Inter, ma il Cholismo-di-Napoli potrebbe raggiungere vette inesplorate di coinvolgimento emotivo.