La fine del Tottenham

Con la finale di Champions era arrivato al massimo, e ora deve ricostruire. Solo che Mourinho non sembra essere il manager adatto per questa missione.

L’ultima immagine della stagione del Tottenham, a causa della sospensione dell’attività agonistica annunciata dalla Federcalcio inglese, è la sconfitta alla Red Bull Arena di Lipsia. Una stagione che ha visto l’esonero di Mauricio Pochettino dopo quasi sei anni di gestione, l’eliminazione più o meno rapida da tutte le coppe – nazionali e internazionali – e un ottavo posto in campionato al momento del lockdown. Ma i problemi non sono colpa di un momento negativo, non sono nati adesso o qualche settimana fa. Già dopo la sconfitta nella finale di Champions di Madrid contro il Liverpool c’era la sensazione che gli Spurs avessero raggiunto un picco di risultati e rendimento difficile da replicare.

Lo stesso Pochettino aveva spiegato più volte che il Tottenham aveva bisogno di rimodellare la rosa: sapeva che la sua sesta stagione nel Nord di Londra sarebbe stata difficile, sapeva quanto sarebbe stato complicato continuare a motivare gli stessi giocatori dopo tanti anni. Ripetere quanto fatto nel 2018/19 era quasi impossibile. Le cause sono molte: l’età media crescente dei pezzi importanti della rosa, la sensazione che quel gruppo non avesse più la stessa carica fisica ed emotiva degli anni precedenti. Come avevano scritto a ottobre Jack Pitt-Brooke e Charlie Eccleshare in un articolo a doppia firma su The Athletic: «Quest’anno nessuno ci credeva più. Per molto tempo questa è stata una squadra che ha dato tutto in campo, che andava a mille, sfidando gli avversari e spingendo fino al fischio finale. Ma non in questa stagione. E in questa squadra, se l’impegno diminuisce anche solo un minimo, l’intera struttura cade a pezzi».

Non è solo una questione di campo, ovviamente. La società, con il presidente Levy in testa, ha pensato di non potersi permettere una rivoluzione, ripetendo un solo mantra: crescere, continuare a crescere, e crescere con delle certezze. Levy non ha avuto il coraggio di cambiare né allenatore, né la rosa. Perché il Tottenham ha uno stadio da pagare e obblighi da rispettare sui pagamenti. Inoltre il club sta ridefinendo la sua dimensione societaria per certificare definitivamente la sua appartenenza all’élite del calcio europeo. Quindi ha bisogno anche di risultati, possibilmente qualificandosi per la Champions League ogni anno; deve dare una buona immagine di sé, in campo e fuori, per poterla “vendere” ovunque. Insomma, il Tottenham è entrato nel ristretto gruppo dei migliori club d’Inghilterra e del mondo, e per mantenere il suo status non vuole prendere rischi – come quelli che comporterebbe una ricostruzione –,  non vuole ripartire da zero e aspettare che la squadra raggiunga di nuovo i livelli visti negli ultimi anni.

Sembra paradossale, ma quanto fatto di buono da Pochettino sulla panchina del Tottenham ha elevato il livello del club – sia sul piano sportivo sia sul piano societario – al punto da ridurre a zero il margine di errore, anche per se stesso. L’allenatore argentino è arrivato a Londra nel 2014, quando gli Spurs erano una squadra ambiziosa ma ancora lontana dalle grandi. Poi durante la sua gestione il Tottenham è arrivato a giocarsi il titolo di Premier League due volte, nel 2016 e nel 2017: in quei due anni nessun’altra squadra ha fatto più punti di loro, che tra l’altro avevano costruito la rosa con un budget inferiore rispetto al resto delle Big Six. L’anno scorso è stato raggiunto il picco più alto, con la prima finale di Champions League della storia del club giocata poche settimane dopo l’apertura dello stadio: due eventi che testimoniano come ormai gli Spurs fossero diventati parte dell’élite europea, in termini di infrastrutture ma anche di ambizioni, prospettive, credibilità.

Quando il campo non ha dato più risultati è crollato tutto. Le scelte conservative delle ultime stagioni non hanno più pagato e Levy si è visto costretto a ripartire da zero. Perché avere una crescita infinita e costante è impossibile, bisogna aspettarsi che prima o poi arrivi un momento di flessione. Difficile dire se, come si è sentito più volte, mancasse davvero l’ultimo step per consolidare quello status di big del calcio mondiale e per coronare un ciclo straordinariamente positivo. Se davvero fosse richiesta una vittoria in Champions, o in Premier League, per dire definitivamente che il Tottenham era una delle migliori. Dipende sempre dalla visione che si vuole avere del calcio, del calcio di oggi, e del valore che si dà ai risultati – che sono quelli elencati, e non sembra proprio poco – e se i trofei devono essere l’unica misura di un buon risultato, indipendentemente dalle condizioni di partenza.

Dopo un 2018/19 fatto di 32 partite e 9 reti in Liga, Giovanni Lo Celso non ha ancora segnato una rete in Premier. E nonostante abbia giocato l’ultima partita ufficiale nel giorno di Capodanno 2020, Harry Kane è ancora il miglior marcatore stagionale del Tottenham: ha segnato 17 gol in 25 partite (Catherine Ivill/Getty Images)

La società ha scelto di contrastare il trend negativo mettendo sotto contratto l’unico allenatore il cui nome è, più o meno, sinonimo di risultati a qualunque costo. Se si vuole abbracciare l’idea che un risultato chiaro ed evidente era l’unica cosa che mancava al Tottenham, prendere Mourinho significava darsi la probabilità più alta di chiudere il cerchio. E ovviamente anche con un orizzonte temporale molto breve, anche nel pieno di una stagione complicata. Ma la decisione di prendere Mourinho è difficile da intendere, non solo con il senno di poi e con i risultati alla mano: Mou è l’allenatore divisivo per eccellenza, con poca credibilità, oggi, per avviare un nuovo ciclo. Insomma, José Mourinho non è l’uomo più adatto se stai ragionando sul lungo periodo. Il portoghese viene da avventure – alla guida di Chelsea e Manchester United, ma forse anche al Real Madrid – in cui ha fatto fatica a giustificare la gestione dello spogliatoio e del campo con i risultati. E già al momento della firma con il Tottenham veniva da chiedersi se fosse ancora in grado di trasformare una squadra a sua immagine e somiglianza per portarla al successo.

Il primo impatto non è stato negativo. Il Tottenham ha raccolto 23 punti nelle prime 13 partite di campionato, poi si è qualificato agli ottavi della FA Cup e agli ottavi di Champions League. Ma non c’è mai stata continuità nelle prestazioni. Come se non si fosse sviluppata una reale connessione tra lui e i suoi giocatori, e i pessimi risultati delle ultime settimane non sono poi tanto sorprendenti. Questo Tottenham è una squadra che sembra inadatta al suo allenatore, per quello che hanno fatto vedere, entrambi, negli ultimi anni. Ed è difficile immaginare che una le due parti possa ricalibrarsi e cambiare tanto da adeguarsi perfettamente all’altra.

Come manager del Tottenham, lo score di Mourinho è di undici vittorie, quattro pareggi e cinque sconfitte in venti partite di tutte le competizioni (Michael Regan/Getty Images)

Una distanza che sembra ancor più evidente fuori dal campo. La dirigenza del Tottenham continua a non essere particolarmente incline a grandi investimenti per migliorare la rosa sul mercato, specialmente con giocatori già affermati e che chiedono stipendi onerosi. Perché in realtà gli Spurs non possono permettersi di ragionare solo sul qui e ora, senza costruire una prospettiva di lungo periodo. Mourinho, dall’altro lato, è un allenatore che pretende tanto e subito dai suoi datori di lavoro, garantendo a modo suo i risultati. Anche nell’ultima avventura allo United, dopotutto, gli screzi con la società riguardavano la scarsa propensione ad acquistare tutti – ma proprio tutti – i giocatori che lui indicava, cosa che nei suoi piani avrebbe portato i successi che tutti si aspettavano.

Il cortocircuito dell’ultimo periodo è una conseguenza piuttosto logica, a questo punto. I risultati di questa stagione sono lì a dimostrare che il ciclo di Pochettino era finito, che è stato un ciclo straordinario per crescita e continuità, ma che avrebbe avuto bisogno di essere rigenerato con volti nuovi, con prospettive diverse, con nuove sensazioni, anziché insistere sempre sullo stesso percorso. Invece la società ha scelto di conservare e perseverare fino all’ultimo, e alla fine ha cercato la scorciatoia più rapida di tutte – puntando sul vincente per antonomasia, in teoria – per provare a portare a casa un risultato immediato, rapido, simbolico. Solo che adesso non c’erano le condizioni perché questo rapporto andasse come sperato. Nessuno vince per diritto divino, nemmeno se si chiama José Mourinho.