Gianni Mura, l’anno in cui non si corse la Milano-Sanremo

Un ricordo di una delle più grandi firme sportive, morto a 74 anni, un pezzo di storia del giornalismo.

Quest’anno non ci sarà la Milano-Sanremo, non ci sarà il Giro d’Italia, al punto in cui siamo, non sappiamo se si disputerà nemmeno il Tour de France. Riusciremo a vedere di nuovo la folla allargarsi al passaggio del ciclista in fuga e poi stringersi di colpo dietro la sua ruota, al Galibier o al Col del Madeleine? Quei tornanti lungo i quali tutti erano impazziti per Pantani, e per i più grandi prima di lui, li rivedremo? Quest’anno, nei primi giorni di primavera, nessuno può girare in bicicletta. Nessuno che si incastri con la ruota anteriore tra i binari del tram a Milano, nessuno che si saluti da un manubrio all’altro a Bolgna o a Parma o a Reggio Emilia. Le biciclette restano nei cortili, i ciclisti si allenano a casa. È anche l’anno in cui è morto Gianni Mura, d’infarto, nel primo giorno di primavera, mentre fuori il giallo, il rosa, il verde fioriscono lo stesso.

Potremmo pensare che le classiche, da Gand a Sanremo, da Liegi a Roubaix, da Parigi alle Fiandre, non si svolgeranno perché non ci sarebbe Gianni Mura a raccontarle la mattina dopo. Del resto i campionati di calcio sono fermi per lo stesso motivo. Mura ci ha messo del suo, scegliendo di andarsene il giorno in un cui non si sarebbe corsa la Sanremo. Non ci sarebbero stati uomini in fuga, allora se ne sarebbe andato lui, per sempre. Eravamo abituati a Mura, ci aveva abituati bene, ogni articolo, ogni storia di sport che aveva raccontato ci era sembrata più vera: Mura sapeva il linguaggio, conosceva la misura, e dosava l’ironia.

Dello sport apprezzava le regole ma conosceva gli uomini, capiva il talento, il movimento, lo stato d’animo, il gesto prima dell’attimo decisivo. Pantani che si lasciava sfilare di lato e poi scattava, lasciando tutti chissà dove, Merckx in maniche corte sotto la neve che recupera e batte tutti sulle Tre Cime di Lavaredo. Mura ci ha insegnato a scrivere lo sport, senza separare mai il dribbling dalle gambe che lo portavano a compimento, il rigore sbagliato dal campione che lo aveva fallito. Ci ha insegnato a leggere prima gli atleti e poi i loro gesti. Ci ha ricordato che per ogni impresa sportiva c’è un motivo logico e poi uno irrazionale, che alcuni sono campioni e altri geni, altri ancora, i migliori, entrambe le cose.

Ci ha anche ricordato che un Merckx deve molto a Gimondi, che un Pantani deve molto al talento, tanto alle sue paure, tutto al suo istinto solitario. Ci ha messo bene in mente che il grado di separazione tra vittoria e sconfitta è meno di uno; che anche un trionfo in finale di Champions League o una fuga solitaria al Tour de France lasciano il tempo che trovano se nessuno le sa raccontare. Ripensiamo, in queste ore, al suo pezzo sulla morte di Pantani, quando scrisse (quasi scusandosi per l’esagerazione) che Pantani senza bicicletta era come l’Albatros di Baudelaire; a quelli su Gianni Brera e Beppe Viola (che trio formidabile); a quelli su Rivera o Gigi Riva; quello bellissimo dopo la vittoria di Nibali al Tour de France, in cui il ciclista siciliano aveva scavato la roccia, una goccia alla volta. Possiamo oggi prendere in prestito una poesia di De Angelis e recitarla a Mura, dedicandogli i primi tre versi, al suo inseguimento: Milano lì davanti, lì davanti / come un’idea a perpendicolo / o uno sbocco di sangue.

E oggi ci salta anche davanti agli occhi la sua domanda a Pantani: «Perché vai così forte in salita?», e la risposta: «Per abbreviare la mia agonia». Sorridiamo, anche se malinconici, perché Mura ha appoggiato la penna, salutato tutti in fretta, come quando ci si toglie il gruppo di dosso, e ha abbreviato l’agonia di questi giorni senza fughe di giornata andate male, senza la cima Coppi, senza il passo dello Stelvio, senza biciclette.

Immagine via Città di Parma