I primi titoli vinti, subito dopo la Juventus, la crisi e la Libertadores. La fuga in Cina, il ritorno, e l'ultima vittoria.
Era il 18 luglio 2015. Poco più di un mese prima, un Pablo Aimar fisicamente consumato aveva giocato la prima e ultima partita dal suo ritorno al River Plate. A inizio luglio era tornato al Monumental anche Javier Saviola, l’idolo a cui i tifosi del Millonario hanno sempre rimproverato di aver strizzato fino all’ultimo secondo il suo tempo in Europa. Il ritorno a casa è un topos a cui nessun calciatore sudamericano sembra poter sottrarsi, ma quello di Carlos Tévez è stato differente da tutti gli altri: quando aveva deciso di tornare aveva solo 31 anni, il suo fisico asciutto pulsava ancora sotto la maglia bianconera e l’Europa intera riconosceva in lui un attaccante d’élite. Il suo piano era tornare al Boca e scrivere il finale del suo romanzo nel pieno delle forze, lucido e implacabile, così come aveva trascinato la Juventus fino alla finale di Champions League contro il Barcellona.
Quella sera di metà luglio il Boca Juniors battè il Quilmes 2-1 e mantenne la testa della classifica, ma soprattutto Tévez tornò a indossare la maglia della squadra che tifava e con cui era diventato uomo e calciatore. Era una festa: cinque giorni prima, cinquantamila persone avevano riempito la Bombonera per vederlo calciare in aria i primi palloni, e molte di più avevano paralizzato la zona dello stadio fin dal mattino. L’euforia incontrollabile che soltanto un idolo di quella statura poteva risvegliare si mescolava alla consapevolezza di avere in mano un giocatore evidentemente fuori scala per quel contesto. «A 26-27 anni avevo addosso più grasso di oggi. Non ho nessun rimpianto, perché sono tornato nel mio momento migliore», disse.
Era un giocatore diverso dal nove cannibale che divorava lo spazio in profondità e l’avversario in pressing, durante il suo primo ciclo. La sensibilità tecnica nello stretto e la clamorosa facilità di calcio erano rimaste intatte negli anni, ma il tempo sembrava essersi preso abbastanza potenza fisica da fargli notare quanto potesse essere utile in rifinitura. Rodolfo Arruabarrena, che allenava il Boca in quei mesi, disegnò per lui un ruolo ibrido in un tridente molto fluido, in cui poteva stare alla larga dal lavoro sporco rimanendo al centro del gioco. Nelle dodici giornate che mancavano alla fine del campionato, Tévez segnò cinque gol, ma il suo impatto a livello tecnico ed emotivo, in una squadra di diversi buoni giocatori e pochi referenti abituati a vincere, andava oltre le statistiche. Si stava formando un nuovo Boca intorno a Tévez: secondo la stampa argentina, in quei giorni a Ezeiza, il centro sportivo del club, non veniva deciso nulla senza che Carlitos fosse d’accordo. Il preparatore atletico del Boca, infatti, avrebbe viaggiato a Torino per raccogliere informazioni sul lavoro tattico e fisico che Tévez era abituato a svolgere nel periodo alla Juventus. In quel semestre, vinsero sia il campionato che la Copa Argentina
La sensibilità tecnica nello stretto e la clamorosa facilità di calcio erano rimaste intatte negli anni, ma il tempo sembrava essersi preso abbastanza potenza fisica da fargli notare quanto potesse essere utile in rifinituraTévez, però, era tornato a Buenos Aires con l’unico obiettivo di conquistare la sua seconda Copa Libertadores dopo quella del 2003. Vincere in quel momento e in quelle circostanze significava riscrivere le teogonie azul y oro e portarsi ancora più vicino al massimo idolo della storia del club, Juan Román Riquelme: nel 2007, Roman aveva 29 anni, era lo stesso giocatore che aveva trascinato pochi mesi prima il miglior Villarreal di sempre, e giocò un semestre indescrivibile, segnando 8 reti in Libertadores di cui 3 soltanto nella doppia finale contro il Grêmio. Carlitos aveva addosso la forma e la fame per provare a replicare quell’impatto, ma non aveva messo in conto la facilità con cui il passato si fa inghiottire dal presente e si fa perdere di vista dal futuro. Le prime cinque deludenti giornate di campionato costarono la panchina ad Arruabarrena, che venne sostituito da un’altra leggenda del Boca di Bianchi, Guillermo Barros Schelotto. La squadra non stava trovando coesione e, pur essendosi rinforzata sul mercato, iniziava già ad assumere le fattezze di quel blob di talento sconnesso e difficile da maneggiare che sarebbe stato il Boca degli anni successivi. Anche Tévez, inaspettatamente, faticava a trovare un rendimento continuo; splendeva a lampi, era visibilmente il giocatore più forte della squadra, ma altrettanto visibilmente soffriva la mancanza di un contesto che lo valorizzasse. Giocò una Copa Libertadores discreta, inserita in una stagione più difficile che negativa; sicuramente non dominante, non abbastanza da riuscire a emergere al di sopra della squadra e del suoi difetti, come probabilmente si aspettava di poter fare un anno prima.
Questi problemi, del Boca e di Carlitos, affiorarono nella maniera più traumatica a luglio, nella semifinale di Copa Libertadores contro l’Independiente del Valle. Nel complesso fu una condanna quasi allegorica: sconfitti sia in casa che in trasferta dall’underdog del torneo, una squadra giovane e senza stelle ma perfettamente identificata in un’idea, che era proprio quello che mancava alla squadra di Guillermo. Tévez, alla Bombonera, giocò la sua peggior partita da quando era tornato in Argentina. Inoltre, per la cervellotica formula dei tornei locali di quell’anno, il Boca si era giocato con il cattivo piazzamento nel campionato appena concluso la possibilità di partecipare all’edizione successiva di Copa. Significava che Tévez, nella migliore delle ipotesi, avrebbe giocato una finale di Libertadores nel dicembre 2018, a quasi 35 anni. Quei 90 minuti, trascorsi galleggiando senza posizione e senza protagonismo, erano le macerie del suo progetto, che sfumò insieme alla possibilità di vincere la Copa. Era il luglio 2016.
A quella delusione il Boca reagì come aveva sempre fatto: con forza, comprando altri giocatori, ingrandendo il blob e rendendolo talmente imponente da inghiottire senza problemi il campionato seguente e quello ancora successivo. Nella testa di Tévez, però, qualcosa si era rotto. Nell’ossessione della Copa aveva incanalato tutte le sue energie nervose, riuscendo a sopportare la pressione che comportava il ruolo di stella del Boca Juniors. Una volta sparita, tutto tornò in discussione. Ancora una volta, il cliché del ritorno mostrava il suo lato opaco, e in superficie, invece della gloria, riaffiorava il peggio del suo primo ciclo al Boca: a vent’anni, aveva lasciato l’Argentina psicologicamente esasperato, perseguitato da una fama arrivata troppo in fretta e dalle costanti attenzioni della stampa per la sua vita privata. La spropositata esposizione mediatica, mischiata all’amarezza e all’assenza di obiettivi concreti, lo stava di nuovo stravolgendo, a 32 anni.
A dicembre 2016, il mese in cui tornò a toccare picchi di rendimento altissimi, le offerte record dalla Cina erano già l’argomento principale dei giornali sportivi argentini: in un superclásico al Monumental fece gravitare l’attacco intorno a sé, si caricò sulle spalle l’esito della partita e la ribaltò con due gol, di cui uno meraviglioso. Un tocco di prima, morbido e arrotondato dal limite, incastrato all’incrocio con la sensibilità tecnica che solo lui, in quella squadra, possedeva. Ancora oggi non è esagerato definire quel superclásico la miglior partita di Carlos Tévez degli ultimi cinque anni. Replicò la settimana dopo contro il Colón, con un’altra prestazione di alto livello, l’ultima, prima che accettasse l’offerta dello Shangai Shenhua e chiudesse nel modo più imprevisto e doloroso il suo secondo ciclo al Boca.
«Per me era molto più facile rimanere, segnare qualche gol e continuare ad essere Tévez. Sapevo che i tifosi l’avrebbero presa male, ma non avevo più benzina per lottare e mi sono fatto da parte in un momento in cui la squadra avrebbe vinto anche senza di me», raccontò in una delle sue prime interviste dopo aver rotto un silenzio di sei mesi dalla partenza. In Cina durò fino a fine 2017. «Non stavo bene, infatti mi sono infortunato quattro volte. Sapevo fin dall’inizio che sarei tornato». Lasciare il Boca in quel momento era stata una decisione difficile, forse necessaria, ma difficile: quando Barros Schelotto provò per l’ultima volta a trattenerlo, dopo la partita con il Colón, Carlitos era ancora annebbiato e gli diede la sua parola, promettendogli che sarebbe rimasto. Le cose andarono diversamente e quando Tévez tornò a Buenos Aires, notò subito che tutto era cambiato. Guillermo era diverso: secondo Carlitos, non gli aveva mai perdonato il modo in cui se n’era andato. Quando il Boca comprò Mauro Zarate, capì da solo che i suoi giorni da protagonista erano finiti nel momento in cui aveva accettato il buen retiro in Cina. L’abisso di freddezza che Guillermo aveva interposto tra sé e Tévez si rimarginò per un solo momento: nei supplementari della finale di ritorno di Copa Libertadores, contro il River. Carlitos aveva giocato da titolare soltanto quattro partite nella fase a gironi e Barros Schelotto lo liberò nel caos dei sei minuti finali del superclásico di Madrid. «La finale è quello per cui sei tornato. Vincila», lo caricò, con una frase che sarebbe suonata beffarda in qualsiasi luogo e in qualsiasi istante, tranne quello.
«Ho parlato con Carlitos, voglio che ritrovi l’allegria e la voglia di giocare a la pelota e non al fútbol, come quando era al barrio»Nessuna partita racconta meglio di River-Boca gli ultimi due anni di Carlitos e lo scollamento tra la percezione che aveva di sé e quella che i suoi allenatori avevano di lui: «Sentivo che, a prescindere da cosa facessi, non avrei giocato», ricorda, ma quel Tévez aveva già 35 anni e il tempo lo aveva indebolito. Quando l’anno seguente Gustavo Alfaro prese il posto di Barros Schelotto per costruire un nuovo Boca sulle macerie di quella sconfitta, sembrava finalmente essere tornato il suo momento. «È la nostra bandiera», lo esaltò il nuovo tecnico nella sua prima conferenza stampa, una bandiera che venne ammainata nel giro di poche deludenti partite da titolare, perché l’esigenza di ottenere risultati immediati era più forte dell’esigenza di recuperarlo. Carlitos si sentì tradito ed esplose al superclásico di campionato dello scorso ottobre, quando Alfaro, con un attacco decimato dagli infortuni, gli preferì il giovanissimo Hurtado. L’altro River-Boca – la semifinale di Copa Libertadores di un mese dopo – fu praticamente una fotocopia del primo, con Tévez che entrò a partita in corso e, solo nella confusione, cercò giocate nervose, sbagliando praticamente tutto.
Il contratto di Tévez sarebbe scaduto a fine anno. L’unico a prendere in considerazione l’ipotesi di rinnovarlo fu Riquelme. «Ho parlato con Carlitos, voglio che ritrovi l’allegria e la voglia di giocare a la pelota e non al fútbol, come quando era al barrio», disse pochi giorni prima delle elezioni che lo avrebbero riportato al Boca come dirigente, evidenziando cosa si aspettava da lui: un calcio estroso e spensierato, come se potesse tornare bambino. Nella sua carriera, Tévez ha sempre saputo reagire quando la pressione gli ha fatto vivere momenti negativi: dopo la lite con Mancini sentiva che la voglia di giocare a calcio stava scomparendo all’improvviso, poi ha si è ripreso l’élite mostrando una strepitosa versione di sé alla Juventus. Nelle sue prime stagioni al Boca pensava si sarebbe ritirato a 28 anni, ma a 36 era ancora all’epicentro del club più frenetico ed esposto d’Argentina.
Il gol senato da Tévez nell’ultima partita, decisiva, contro il Gimnasia
La sua resistenza – mai silenziosa, né indolore – è stata premiata dall’arrivo di Miguel Ángel Russo, l’allenatore perfetto in quel momento, che si identifica con due caratteristiche: i rarissimi conflitti avuti in carriera coi suoi giocatori e una propensione al calcio offensivo e di possesso. In un Boca che ha saputo vincere un campionato apparentemente perso, c’è tantissimo di Russo, del modo in cui ha tracciato una strada opposta a quella precedente in così poco tempo e di come ha saputo rigenerare giocatori perduti. Come lo stesso Tévez, che nelle ultime sette partite, quelle con il nuovo allenatore in panchina, ha segnato sei dei suoi nove gol totali. Il più importante è valso il titolo, contro il Gimnasia di Maradona: un gol da Tévez, un tiro dal limite che è puro istinto e talento. E pura voglia di giocare a la pelota.