La Bombonera, un mito stanco

Tra un fascino inesauribile e una vecchiaia impossibile da nascondere, le fotografie di Valentina Sommariva mostrano un profilo inedito del tempio del Boca.
di Paolo Condò 31 Marzo 2020 alle 02:02

La gente della Bombonera sostiene che il suo stadio pulsi come un cuore e non balli come un damerino, ma parlando per esperienza diretta è impossibile sottacere le oscillazioni della struttura quando la partita del Boca si fa bollente e l’eccitazione popolare tracima. Succede allora che le gradinate a picco sul campo – pochi stadi al mondo sono così verticali – comincino a muoversi come scosse da un intermittente risucchio: un’onda interna al cemento armato profondamente suggestiva se siete amanti del fútbol e un po’ fatalisti, ma discretamente inquietante per il turista in cerca di emozioni a buon mercato (ce ne sono). La Bombonera balla davvero mentre i tifosi, saltando e pestando i piedi, cantano “burum-bum-bum” sotto la direzione artistica – e non solo – della Doce, la curva degli ultrà gestita con metodi da Gomorra e centro di potere che allunga i suoi tentacoli ben oltre il calcio, fino alla politica.

La prima volta che ci sono andato era l’autunno del 1990, la Fiorentina aveva acquistato un trequartista di nome Diego Latorre – passaggio per l’Italia fugace, oggi è un apprezzato talent televisivo a Buenos Aires – e il suo procuratore Settimio Aloisio, un ingegnere calabrese che aveva cambiato lavoro e fatto fortuna sul Rio de la Plata, mi aveva portato a vederlo: privilegio assoluto visto che l’accredito stampa era andato disperso, e senza una raccomandazione in quello stadio non entri. La Bombonera ha 49 mila posti, i soci del Boca con diritto di prelazione sui biglietti sono 200 mila. O ti affidi alla Doce – che organizza pure le gite turistiche di cui sopra, garantendoti salva la vita – o devi avere un amico importante. Aloisio, che era la personificazione dell’astuzia, mi disse che in realtà il giocatore da osservare per il mercato italiano non era Latorre quanto un centravanti soprannominato il Camion per la sua potenza un po’ goffa: Gabriel Batistuta, appena arrivato al Boca dal River (e già questo…). In parte perché ero malfidente – nessuno fa niente per niente, specie nel mondo dei procuratori – un po’ perché Bati quella sera non riusciva a stoppare un pallone, non lo menzionai nel mio articolo. Anzi, dissi ad Aloisio una cosa tipo “non è certo me che puoi abbindolare”. La storia non mi avrebbe dato ragione.

Al di là del ricordo puramente calcistico, la Bombonera è uno di quei rari miti che non tradiscono quando finalmente li incontri, perché per quanto siano alte le aspettative vengono rispettate. Il calore, certo. La passione esagerata, la struttura che trema – da poco hanno iniziato a dire che è pericolosa, il che consiglierebbe la ristrutturazione (con ampliamento) richiesta – l’aspetto spartano così distante dagli stadi della Champions, che in confronto a questo tempio sono discoteche da fighetti. Ecco, però non è soltanto questo.

La Bombonera è incastonata nel suo rione di riferimento, la Boca degli emigrati genovesi, con le sue case coloratissime fino a Caminito, il delizioso – ancorché assai turistico – vicolo che ha dato nome a un tango: è un isolato a forma di D, con il lato dei palchi che pare un condominio di terrazzi, e accanto a Maradona che ha il suo come vitalizio e lo frequenta appena può, non sarebbe strano scorgere una massaia che appende le lenzuola. Il nome “Bombonera” venne dato da uno degli architetti, lo sloveno Victor Sulcic, perché gli ricordava una scatola di confetti. Sloveno, certo, perché sorprendersi? Segnatevi la massima sull’emigrazione del grande scrittore Ernesto Sabato: gli italiani discendono dai latini, i francesi discendono dai galli, gli argentini discendono dalle navi.

Un impianto spartano, si diceva. Continuamente riverniciato di giallo e blu (o meglio azul, perché a me quel colore sembra un mix fra blu e azzurro indefinibile in italiano: ma forse è un problema mio) a mantenerlo squillante, allegro malgrado la struttura in qualche modo oppressiva. Un paio d’anni dopo quella visita ritrovai la Bombonera all’improvviso, dentro a un film oscuro e pesante del regista argentino Luis Puenzo, La Peste. Liberamente tratto dal romanzo di Albert Camus, narrava di un’epidemia a Buenos Aires, dei provvedimenti ristrettivi per contenerla, della gestione della crisi affidata ai militari: una palese allegoria di quel che era accaduto in Argentina pochi anni prima. Ebbene, le scene dell’ospedale-prigione erano state girate dentro alla Bombonera, con effetti di forte impatto visivo. Un carcere credibile. Un luogo di cura, e di tortura, che non necessitava di ulteriori spiegazioni.

Quel film mi tornò in mente nel settembre del 2010, l’ultima volta che sono stato alla Bombonera, per seguire un allenamento della Spagna, fresca campione del mondo, che il giorno dopo avrebbe affrontato l’Argentina in amichevole al Monumental, lo stadio del River che ospita abitualmente la Selección. Era diventato un impianto stanco e fatiscente, svuotato dai tifosi pareva un esangue corpaccione di cemento. Tanto cemento. Solo cemento. I materiali moderni sono buoni per le discoteche da fighetti della Champions.

Dal numero 32 di Undici
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