«Mia mamma Franca fondò una squadretta femminile, dal 1976 al 1984 ha girato le sagre del Friuli per sfidare gli altri comuni: lei portiere e capitano, mia sorella attaccante e io guardalinee». Era destino che Maurizio Ganz, classe 1968, dovesse allenare una squadra femminile e, altrettanto inevitabilmente, che queste indossassero le strisce rossonere: «Al Milan l’appartenenza conta. Io ho giocato con Maldini, Boban e Carbone, e nella loro scelta sono convinto che abbia contato l’aspetto umano e l’attaccamento ai colori». Valutazioni che si sommano alla necessità da parte del club di trovare una figura di rilievo, in grado di non patire l’ombra di Carolina Morace, allenatrice uscente al termine della scorsa stagione.
Se non è inusuale vedere un uomo dirigere una squadra femminile, è però molto più raro trovare un mister dal peso specifico di colui che si guadagnò l’appellativo di El segna semper lü: 260 presenze e 76 gol in Serie A, uno scudetto, una Coppa Italia, una Coppa Uefa, due volte capocannoniere, una in Serie B e una in Coppa Uefa; una vita passata in spogliatoi occupati da gente di carattere, Javier Zanetti, Paul Ince, Iván Zamorano, George Weah, Paolo Maldini, Zvonimir Boban. Ora Ganz si ritrova in un contesto femminile: un salto che va oltre la differenza di genere. Eppure, il mister ridimensiona l’impatto: «Ho fatto ventuno anni da professionista sul campo e questo è il tredicesimo in panchina, dai Berretti alle prime squadre, compresa un’esperienza massacrante da 50mila chilometri all’anno su e giù dalla Svizzera. E posso testimoniare una cosa: il calcio è universale, ovunque è quella cosa lì, la stessa cosa».
Ganz è un tipopassionale e oggi non è molto lontano dal centravanti che nel 2002, durante Ancona-Reggina, venne espulso per un fallo di mano che non aveva commesso: «Mi incazzo uguale a prima, ma in chiave diversa. Il merito è delle ragazze, che mi hanno aiutato moltissimo a trovare le corde più giuste per questo ambiente». Anche le esultanze sono quelle che faceva sotto la Sud e, per qualche giorno, l’hanno fatto diventare trend topic sui social: «Quelle per i gol allo scadere a Juve e Roma? Guarda, non voglio neanche sapere che cosa hanno scritto, perché so che gran parte sono stati fiumi di insulti. Dicono che sono pazzo, mi sono rivisto e hanno ragione: sono pazzo di questo sport. Io ho sempre esultato così, anche allenando i ragazzini, ma non ho mai mancato di rispetto a nessuno. Se perdo mi deprimo, se vinco esulto. È strano?».
Tra i suoi 34 allenatori in carriera, ci sono personaggi che hanno scritto la storia. Ganz si sistema il cappellino di lana e non è un segnale di titubanza, anzi va diretto: «Ho avuto tecnici che sono diventati ct di grandi Nazionali come Sacchi, Lippi, Capello, Prandelli, altri grandi come Emiliano Mondonico e Gigi Simoni, ho vinto lo scudetto con Zaccheroni. Se però devo estrarne uno dal mazzo, dico Mircea Lucescu. Per come insegnava il gioco, come gestiva il gruppo, per essere stato un precursore del calcio moderno. E a 75 anni è ancora lì, al più alto livello».
Anche al Milan il gruppo è al centro del progetto. E che l’aria del Centro Sportivo Vismara, all’estrema periferia sud della città, sia diversa da quella che si respira in qualsiasi training center maschile lo si percepisce ad allenamento appena terminato. Nessun fuggi fuggi, tutte le ragazze fanno stretching, poi vanno a pranzo insieme, anche senza alcun obbligo: «Sai qual è la cosa fantastica? Che ogni giorno mi dicono che non vedono l’ora che arrivi domani per ricominciare. Ed è vero, lo provo anch’io». Trovare il fine tuning psicologico è uno degli aspetti più stimolanti pure per chi ha vissuto esperienze totalizzanti come segnare a San Siro, davanti a 80mila persone. La scorsa estate, annunciandone l’ingaggio, Maldini dichiarava che «Maurizio ha sempre espresso spiccate doti di leadership». Ma la cifra di Ganz non è quella di Al Pacino/Tony D’Amato in Ogni Maledetta Domenica, le sue giocatrici non lo sentiranno mai incitare a scalare le pareti dell’inferno un centimetro alla volta: «Infatti, non serve. Noi uomini andiamo motivati insistendo sul valore della squadra avversaria, pungolando l’istinto competitivo, dicendo che gli altri sono più forti e sono pronti ad ammazzarti. Le ragazze invece hanno bisogno di sentire che hanno lavorato bene, che hanno qualità. Nella preparazione motivazionale, l’avversario non esiste, è un discorso con loro stesse. Poi, c’è un’altra differenza importante: la chiarezza. Se spieghi loro i motivi delle tue scelte, se sei trasparente e non nascondi nulla, continuano a dare il 100 per cento. Sempre. Prova a fare lo stesso con gli uomini, poi mi dici».
Un nuovo fermento attorno al calcio femminile italiano, in particolare intorno al Milan, si percepisce ovunque. Nel pullman della prima squadra che le accompagna in trasferta, nell’uso del Gps durante gli allenamenti, nel ruolo del nutrizionista e nelle parole di Ganz: «Quest’estate Valentina Giacinti è stata contattata dal Real Madrid e Valentina Bergamaschi dal Chelsea. Se sono ancora qui è perché hanno colto la solidità del progetto Milan e l’hanno sposato. È stata una scelta esclusivamente loro, perché i contratti le avrebbero consentito di partire. Quindi, la decisione va doppiamente apprezzata».
I contratti, ecco. L’evoluzione sembra rapida, ma la strada è ancora molto lunga: «Appena arrivata, Berglind Thorvaldsdóttir mi ha detto: da noi in Islanda uomini e donne hanno parità di salario. Eh, certo: il calciatore che guadagna di più prende tremila euro, ma qui siamo in Italia. Intanto, il Milan è stato il primo club a pagare i contributi alle ragazze, ed è una tutela importante. Loro fanno vita da professioniste, difficilmente possono coltivare altre attività e devono essere messe in condizione non solo di mantenersi, ma anche di mettere da parte un capitale per quando finiranno questa loro breve carriera. Oltretutto, le regole attuali non tutelano neppure il club. I contratti sono vincolanti sul territorio italiano, ma se arriva un club straniero può portarle via quando vuole». Giacinti e Bergamaschi, punti fermi della Nazionale di Milena Bertolini, hanno dimostrato che l’idea di sviluppo esiste, ma l’arrivo di tante straniere dimostra che lo colgono anche da fuori e il ferro va battuto finché è caldo: «Non siamo in Spagna o in Inghilterra, ma ci arriveremo. Diciamoci la verità, fino a qualche anno fa eravamo a livello oratoriale, oggi invece attiriamo giocatrici internazionali importanti. Ora le ragazzine che iniziano a giocare a pallone hanno dei modelli, degli idoli: come succede per le piccole nuotatrici che si ispirano alla Pellegrini, oggi le calciatrici possono sognare Giacinti, Gama e Fusetti».
Rapportare il calcio femminile a quello maschile non solo è ingiusto, è proprio concettualmente sbagliato, eppure è un errore piuttosto diffuso. Negli altri sport il preconcetto è superato: nessuno nella pallavolo si sognerebbe di mettere a paragone la violenza di Ivan Zaytsev alla pur impressionante potenza di Paola Enogu. Lo sport è lo stesso, ma l’interpretazione necessariamente diversa. Però, per restare al volley, una piccola provocazione ce la consentiamo: la rete per le donne è più bassa di 19 centimetri. Il ruolo che sembra soffrire maggiormente le dimensioni del campo unisex è quello del portiere e non è insolito vedere gol con tiri sotto la traversa che un uomo non prenderebbe mai.
Quindi la soluzione è rimpicciolire le porte? Ganz non ci casca: «Mária Korenčiová, il nostro portiere, è alta 1,65, ma è agile, reattiva ed efficace. Quest’estate abbiamo giocato contro il Psg. Hanno tre portieri: la Kiedrzynek è alta 1,80, la Endler 1,82, la Criscione 1,79. Con quelle altezze, credimi, non serve abbassare le traverse. Segnare a Mária è difficile, dalle venti centimetri in più e non prende più neanche un gol». E poi cambiare porte nei grandi stadi sarebbe un problema, proprio adesso che Allianz Stadium, Dacia Arena, il Nereo Rocco di Trieste o il Castellani di Empoli hanno aperto alla Serie A femminile. A quando il Meazza? «Sarebbe molto bello, magari per un derby. Qui al Vismara la tribuna è per circa mille persone e comincia ad andare stretta, anche se il manto erboso è un biliardo. Però giochiamo al Brianteo e quando entri l’effetto dello stadio ce l’hai, eccome».