La letteratura sportiva in Italia

66thand2nd ha cambiato il modo di raccontare sport e letteratura. La fondatrice, Isabella Ferretti, ci ha raccontato come.

In un villino anni venti, in stile pseudo umbertino, a due passi da Porta Pia, incontro Isabella Ferretti, un tempo avvocato iscritto al Bar di New York, poi vita nuova insieme al compagno Tomaso Cenci, anche lui avvocato, come publisher della casa editrice 66thand2nd con sede a Roma. Il Foglio l’ha inserita tra i 100 Sport Thinkers, «per il prezioso contributo fornito alla diffusione, in Italia, della letteratura sportiva di qualità, trasformandola in un vero e proprio genere». Per 66thand2nd il 2020 è l’undicesimo anno di pubblicazione, che tradotto significa almeno dodici libri l’anno dedicati allo sport grazie a due collane: Attese – letteratura sportiva – e Vite inattese, dove lo sport si fa memoir.

In Italia ci aveva provato a metà anni ‘90 l’aretino Enrico Mattesini lanciando Limina, marchio di libri sul calcio, esordio subito bestseller La farfalla granata su Gigi Meroni, fil rouge dichiarato: ali spezzate e nostalgia canaglia, spesso considerata l’unica epica con cui andare oltre le cronache sportive. Il vuoto che 66thand2nd prova a colmare non è solo sul calcio, ma di genere: rompere il monopolio del pallone tirando fuori libri che raccontano storie pubbliche e private attraversate da surf, tennis, basket, atletica, ciclismo, rugby, Formula 1. «Il calcio da noi raccoglie i consensi nazionali», dice Ferretti «Solo il ciclismo gli ha tenuto testa perché un tempo era più importante del calcio e raccontava di più l’Italia. Il calcio ha un potere assorbente per chi racconta sport sui media. Anche nei manoscritti: il 98% delle penne è maschile, l’85% vuole scrivere di calcio».

 

Cosa ha fatto cambiare idea a due avvocati?

«È con la devozione americana per il baseball che abbiamo cominciato a vedere che quale impatto sulla società abbia la cultura sportiva»A NY abbiamo avuto accesso a football e baseball, due sport che in Italia non hanno una dimensione radicata e popolare, Abbiamo rivisto in campo il racconto di Any Given Sunday di Stone, uno sport molto violento, con un prezzo da pagare per il danno subito nel gioco e quello a lungo termine che porta al decadimento fisico. Per reazione abbiamo sposato il baseball: i Mets, gli underdog di NY, lo stadio nel Queens, le lunghe attese, le domeniche passate allo stadio, un’esperienza sportiva e umana totale. Non vivi di attenzione spasmodica, un inning può durare un tempo indefinito, la gara ha momenti di posa molto lunghi ma poi esplode in momenti di spettacolarità, il picco è l’home run. Rileggere Underworld di DeLillo, e Il migliore di Malamud con occhi nuovi ci ha convinti della possibilità di lanciare una collana di narrativa sportiva. Il baseball è stato il nostro drive, abbiamo scoperto lì William P. Kinsella e il testo di Shoeless Joe da cui è tratto Fields of dreams, è diventata la nostra pietra miliare. Sempre sul baseball abbiamo pubblicato Michael Shaara. Ne La partita perfetta Shaara descrive esattamente il gioco a me lettore, un capitolo intero dedicato solo al nono inning, in cui gli passa in testa tutto ciò che vede e che si porta dentro. Questa è la forza di una narrazione. Capisci la differenza?

Perché il sistema americano, quello che Federico Buffa chiama «esperanto di lingua e cultura» riesce a raccontarsi in maniera diversa?

Quando vedi le star tipo Derek Jeter o Alex Rodriguez pensi che siano un po’ ridicoli dal vivo, stretti dentro quelle tutine, i cappellini, ma è l’unica penalizzazione, per il resto vivono dentro un’epica, che comprende la tecnica e i corpi. È con la devozione americana per il baseball che abbiamo cominciato a vedere che quale impatto sulla società abbia la cultura sportiva. Le domande “quale sport pratichi?”, “quale ti piace di più?”, “che squadra tifi?”, fanno parte della società. Un’epica di questo tipo incentrata sullo sport e uno span narrativo su quello che lo sport è stato per la nostra società non lo abbiamo ancora visto da noi. Forse è proprio perché hanno una pop culture simile che possono permettersi la sortita letteraria di un DeLillo.

Quale è la resistenza maggiore che avete trovato in questi anni? Lo storytelling dei new media ha rappresentato una risorsa per trovare nuovi lettori?

Ci è voluto un lungo arco di tempo per far capire il disegno che avevamo in mente. Ci siamo presi una serie di rischi, non c’è ancora piena consapevolezza sul lavoro che facciamo, a cominciare dal bacino enorme di lettura, il nostro primo impegno. Non che non ci fosse il libro sportivo ma mancava una visione. Agli inizi per il distributore l’accoppiata letteratura e sport non esisteva, punto. Il pregiudizio era lì: qualsiasi giocatore è ignorante, non ha tempo da dedicare ad altro che a correre, e comunque il prodotto finale sarà un libro di seconda fascia, instant book o biografie compilative (da cui escludo la potente biografia di Zlatan Ibrahimovic), solo ritorno garantito e sport confinato in un cono d’ombra che ignora che lo sport è anche una faccenda di vite diventate adulte appresso a sogni da ragazzi. E poi bisognava sempre dimostrare che qualcuno lo aveva già fatto, serviva un precedente, quindi la strada era tutta in salita. Però se chiedevi agli scrittori tanto cari al pubblico nessuno accettava, perché trovavano il romanzo sportivo ancora un genere minore e rischioso. Open è già un’altra cosa, è un memoir, sto parlando di romanzi, racconti, la vera narrative non fiction, e comunque un Pulitzer come Moehringer ci si è fiondato con grandi risultati. Jonathan Lethem ha detto: «Penso alla carriera di un artista come a quella di un eroe del baseball: alla fine dei giochi perdi molte più partite di quante ne vinci. Perdere è essenziale». Ecco, chi ce lo racconta un paragone così in Italia?

Con quali storie e quali libri avete forzato il blocco?

I cavalli di troia,  i due libri che ci hanno convinti che quel mercato in Italia ci fosse, sono stati Hurricane. Il miracoloso viaggio di Rubin Carter di James S. Hirsch, e Il mio nome è Jackie Robinson di Scott Simon, di nuovo sul baseball, exploit davvero inaspettati. Sulla storia di Hurricane Carter, un uomo assediato dalla persecuzione razziale e in galera da innocente per quasi vent’anni, ci fu l’endorsement di Saviano tramite l’interesse di Antonio Franchini, «uscite a prendere questo libro muscolare, un manuale per imparare a guardare nel buio e scovare la strada». Jackie Robinson è invece stato il primo giocatore nero a giocare nella Major league di baseball, per Obama «ha trasformato la paura in coraggio». Scott Simon ha detto che gli eroi veri sono quelli che rischiano la vita per gli altri, ma il peso che Robinson si è caricato sulle spalle è stato altrettanto enorme.

Il calcio è rimasto escluso dalle prime pubblicazioni?

Il calcio arriva con uno scrittore inglese che è un ex giocatore:  Anthony Cartwright. Il calcio inglese è una mia passione, e con lui abbiamo un quadro sociale unico: Midlands, Black Country, Dudley, distretto siderurgico, working class. È stato un difensore altissimo, piazzato, stopper perfetto, ma forse atipico per il calcio italiano, che ha abbandonato per infortunio. Qualunque cosa scriva è indissolubilmente legata alla società e alla politica. La mia idea di letteratura sportiva è che da un corpo fisico di un difensore si possa passare a parlare di questioni sociali.

Quando è stato il momento in cui avete trovato invece una storia importante italiana con cui avete aperto il varco immaginato anni prima?

La fortuna è arrivata con una coincidenza. Quando apriamo la collana Vite inattese usciamo con due storie di ciclismo e tennis. Terribile splendore. La più bella partita di tennis di tutti i tempi di John Fisher che narra la semifinale a Wimbledon 1937 tra l’americano Don Budge e il tedesco Gottfried Von Cramm, antinazista e condannato dai tedeschi per la sua omosessualità (escluso poi da Wimbledon per motivi analoghi),  esce nello stesso anno di  Open di Agassi (Einaudi), Wimbledon di Gianni Clerici (Mondadori), Tennis di  John McPhee (Adelphi) ma non soffre la concorrenza, anzi. Poi usciamo con Aili e Andres McConnon autori di La strada del coraggio. Gino Bartali, eroe silenzioso un libro su un eroe nazionale italiano scritto da due canadesi, fratello ricercatore storico e sorella giornalista del New York Times.  Libro che racconta la vicenda all’epoca sconosciuta di Gino il Pio, staffetta partigiana tra Perugia e Assisi in accordo col vescovo cittadino, Bartali che trasportava documenti falsi per salvare cittadini ebrei. In vita non ha mai voluto che se ne parlasse, McConnon si è imbattuto per caso nel capitolo Bartali mentre stava facendo ricerche in Italia sulla Shoah. Per noi è un libro simbolo: scrupolosità e accuratezza di indagine, mai un approccio settoriale, il focus non è sul personaggio ma sulla vicenda specifica legata a quell’uomo che per avventura era anche l’eroe nazionale. Alcuni giornali hanno scritto che senza questo libro Bartali non sarebbe mai stato proclamato Giusto tra le Nazioni dallo Yad Vashem.

Su cosa si sono concentrate le firme italiane?

«Finnegan la fa differenza in Giorni selvaggi perché racconta lo sport e capisci che fare surf significa rischiare la vita ogni volta che prendi la tavola»Siamo andati a prendere giornalisti di lungo corso, una qualità che era sulla piazza, e gli abbiamo proposto nostri progetti. Forti di tante letture e tanto scouting mettiamo tutti gli autori davanti a una maieutica molto forte. Emanuela Audisio è un nostro benchmark assoluto sullo sport, per la competenza e la sensibilità, ha dedicato tutta la vita allo sport. Dopo Bartali volevamo uno sportivo più vicino a noi e che ci era rimasto nelle corde. Non mi piaceva quanto era costruito sulla vicenda di Pantani. Molti libri spingevano sulle circostanze della morte.  Pantani era un dio di Marco Pastonesi è un libro sulla leggenda ancora giovane del ciclista, il titolo è una frase di un gregario francese, «lo so che forse Marco ha fatto uso di sostanze come tutti, nel ciclismo c’è questo fenomeno, ma nonostante questo lui era un talento unico, per me Pantani era un dio». Giorgio Terruzzi ha scritto Suite 200 – L’ultima notte di Senna, un flusso di coscienza su cosa pensasse Ayrton prima di morire, il rapporto col padre, con Adriane, con le sue paure, e l’ostinazione di andare in pista dopo i due incidenti di Barrichello e Ratzenberger. Nonostante fosse un oggetto inflazionato abbiamo chiesto a Marco Ciriello il suo Maradona. Non condivido la schiavitù che Diego Armando impone a livello calcistico, non amo il personaggio, eppure ho voluto questo libro su una figura che è sempre rimasta vittima di limiti iniziali e, non ha avuto l’evoluzione che ha avuto Pelé o Platini, la sua ambivalenza, la fragilità, l’eroe dei peones e dei disgraziati che però non rinnega nulla e non fa demolire la casa di famiglia come Ronaldo. Ma pure un generoso senza limiti, nella costruzione del suo mito non c’è la royalty.  Con Lorenzo  Iervolino, diverso per formazione e curriculum, abbiamo fatto un’operazione su Socrates, unendo diritti civili, storia afroamericana, punto di vista politico spiccato, e viaggio in Brasile. Con Fabrizio Gabrielli abbiamo avvicinato la divinità pop del calcio globale CR7, a cui l’autore ha provato a dare del tu. Con Dario Cresto-Dina abbiamo riscritto la felice spedizione tennistica italiana in Cile e con Claudio Gregori uno che ha scritto la voce Treccani del ciclismo ci siamo immersi nel mito di Bottecchia.

Infine siete stati premiati anche con un premio Pulitzer, un libro di culto di cui hanno parlato tutti.

William Finnegan la fa differenza in Giorni selvaggi perché racconta lo sport e capisci che fare surf significa rischiare la vita ogni volta che prendi la tavola. Questo aspetto in Un mercoledì da leoni rimaneva a un livello primitivo ed era nascosto in Point break, racconto pieno di stereotipi che Finnegan detesta. A decretare la fortuna di libri come Giorni selvaggi sono state le donne, me ne sono resa conto alle presentazioni. Eppure è uno sport prettamente maschile, raccontato dal punto di vista di un uomo, con pagine e pagine su rivalità e amicizia tra maschi. Il motivo è che è un libro molto colto, con un’idea molto forte.

E Kobe? Gli avete dedicato una biografia sontuosa, quella di Roland Lazenby.

Ho pianto per Bryant. Mi preparo a fare dei tributi. Renderò onore a Kobe come e quanto potrò, gli dobbiamo molto.