L’11 novembre 1997 al Target Center di Minneapolis i San Antonio Spurs sono ospiti dei Minnesota Timberwolves. Per Tim Duncan è la settima partita da professionista: prima scelta assoluta al Draft di quell’anno dopo aver dominato a Wake Forest, ha già messo insieme due doppie doppie e ben quattro gare da almeno 15 punti. Il suo primo duello con Kevin Garnett – quinta scelta del Draft di due anni prima uscendo da Farragut Academy: era dal 1975 che un liceale non passava tra i pro saltando il college – è uno dei più attesi dell’anno e si cristallizza in un momento chiave della carriera di entrambi.
Dopo aver catturato un rimbalzo Duncan prova a riaprire su Avery Johnson, Garnett intercetta il passaggio e va per un comodo due contro uno che Stephon Marbury rifinisce con l’alley oop; la schiacciata è tonante, l’urlo che la accompagna pure: Duncan non può far altro che abbozzare.
Come in 32 delle successive 51 occasioni in cui si sfideranno di lì al 2016, sarà la squadra di Duncan a prevalere: 93-92, con 22 punti (nuovo career high) e 9 rimbalzi in nemmeno 35 minuti per l’uomo da Saint Croix. Da ragazzino il suo futuro sembrava essere nel nuoto: poi, nel settembre 1989, l’uragano Hugo aveva distrutto tutto ciò che poteva distruggere sull’isola, piscine comprese, e gli aveva cambiato vita e prospettive. Quella schiacciata di Garnett, all’inizio della stagione in cui Duncan sarebbe stato nominato quasi plebiscitariamente “Rookie of The Year”, aveva fatto lo stesso.
Il primo confronto: Duncan vince sfida a distanza e partita ma Garnett gli schiaccia in testa almeno un paio di volte
Due profili diversi
Il dibattito su chi tra Kevin Garnett e Tim Duncan dovesse ricevere il testimone da Karl Malone per ambire al titolo di ala grande più forte di tutti i tempi, non si è mai arrestato. Non c’entrano i titoli, i punti, i rimbalzi: Duncan e Garnett sono stati gli ultimi esponenti di una pallacanestro dominata dai lunghi prima dell’avvento dello “small ball” e delle combo guards dal range di tiro illimitato, diversi ma uguali nel loro essere artefici di un’ulteriore evoluzione del ruolo della power forward e nell’aver costituito l’epitome del “franchise player” in una delle ultime rivoluzioni del basket contemporaneo di cui siamo stati testimoni dall’inizio alla fine.
Tra i due Garnett è sempre stato quello più “vistoso” e spettacolare. È l’uomo dai mille soprannomi, il giocatore che detiene praticamente tutti i record di franchigia dei Timberwolves, che cambia la percezione sull’adattamento dei liceali alla Nba ben prima di LeBron James, che costringe la lega a introdurre la “rookie scale” – la regola che prevede un salario fisso per i primi quattro anni di contratto dei rookies – dopo il rinnovo monstre del 1997 (126 milioni di dollari per sei anni), che spinge i Boston Celtics a scambiare per lui ben sette giocatori nell’estate 2007. E che, soprattutto, fissa nuovi standard di eccellenza nel suo ruolo: prima di lui non si era mai visto un “all-around player” di 2.10 dominare tecnicamente e fisicamente su entrambi i lati del campo. In occasione della sua prima gara in carriera da 20 punti – il 27 febbraio 1996 a Chicago contro i Bulls – Garnett mette in mostra le qualità tipiche dei lunghi di due generazioni dopo: capacità di avviare, condurre e concludere il contropiede, piazzato affidabile dalla media-lunga distanza, presenza a rimbalzo, velocità di piedi e capacità di cambiare contro chiunque sul perimetro e di tenere contro avversari più piccoli e rapidi.
Due giorni prima del Draft Sports Illustrated gli aveva dedicato la copertina chiedendosi se fosse “Ready or not”: otto mesi e una cinquantina di partite dopo Kevin Garnett è già un giocatore che non si era mai visto.
Contro i Bulls di Jordan, la prima gara da 20 punti in carriera per Garnett: una salto in avanti nel futuro
Duncan, invece, sembrava provenire da un’altra epoca. Un’epoca in cui si completavano i quattro anni al college prima del salto tra i professionisti, dove compiti e funzioni sul campo erano decise in base ai ruoli e dove alla schiacciata si preferiva l’appoggio al tabellone, con le doti atletiche al servizio dei fondamentali e non viceversa. In apparenza un “alieno” fuori dal mondo e dal tempo, in realtà la miglior fusione possibile tra antico e moderno trasposta in un modo di giocare che rispecchia quello di stare al mondo: essenziale, con poche concessioni vocali ed emozionali alla partita. Atletismo sottovalutato, difensivamente mostruoso nella lettura anticipata delle singole situazioni, un controllo tecnico e mentale dei momenti chiave della partita che si esprime nelle sua qualità di passatore in post e nel suo sapersi prendere (e mettere) i tiri che servono quando serve. È così che, nel 1999, alla sua seconda stagione da professionista, domina le Finals contro i New York Knicks di Patrick Ewing. È così che diventa “The Big Fundamental” di una delle tre dinastie – dopo quella dei Lakers e prima di quella degli Warriors – della Nba post Jordan.
Nel 1999 gli Spurs vincono 4-1 le Finals contro i New York Knicks e Tim Duncan viene nominato MVP
Nel 2009 sempre Sports Illustrated lo nomina miglior giocatore del primo decennio del XXI secolo con la seguente motivazione: «Duncan è stata la ragione per cui i San Antonio Spurs sono diventati l’unica squadra a disputare i playoff ogni anno». Eppure non ha nessuna di quelle signature moves che i ragazzini sognano di emulare al campetto e il suo tratto distintivo e quell’andatura ciondolante e annoiata che accompagna il suo rientro in difesa dopo aver messo un tiro, magari di tabella: così antiestetico, così minimalista, così efficace.
Uno contro uno
Consultando il portale LandOfBasketball.com ci si accorge che Garnett e Duncan si sono affrontati ai playoff soltanto in due occasioni, con entrambe le serie vinte 3-1 dagli Spurs. La partita più bella è quella del 21 aprile 2001 passata alla storia come “The Battle of Titans”: un uno contro uno lungo 48 minuti, due pesi massimi che si cercano e si sfidano ad ogni azione, tirando fuori il meglio del proprio repertorio, spinti unicamente dalla voglia di dimostrare all’altro chi è il migliore al di là di numeri e statistiche. Nel 2015 Garnett dirà: «Considero importanti tutti le sfide con i grandi giocatori che ho sfidato, ma con Tim è diverso. Lui è sempre stato un avversario fiero: ho sempre rispettato lui, il suo modo di giocare, la sua etica del lavoro. Rappresenta tutto ciò che puoi volere da un tuo rivale in questa lega, soprattutto se cerchi di migliorare costantemente te stesso».
“The Battle of The Titans” è la sfida più bella Tra Duncan e Garnett ai playoff
Questa, però, è una rivalità che trascende il campo, la dicotomia tra vittoria e sconfitta, la diversa comunicatività dentro e fuori dal campo: è una questione filosofica e culturale che si manifesta anche nelle pieghe più sgradevoli dello scontro tra due personalità così diverse e divergenti. Il 6 maggio 1999, sempre ai playoff, mentre Duncan era in lunetta per dei tiri liberi, Garnett lo aveva provocato dicendogli «felice festa della mamma, figlio di puttana»: Tim la sua l’aveva persa quando aveva 14 anni, e Kevin questo lo sapeva. Per lui, trash talker di professione, era solo un modo come un altro per provare a entrare sottopelle al suo avversario alfa; per Duncan si era trattata di una mancanza di rispetto imperdonabile, non tanto nei suoi confronti quanto verso quella visione sacrale del gioco in cui non c’è spazio per la componente emotiva, istintiva, primordiale.
Tra anni dopo, il 4 febbraio 2002, nel terzo quarto di una partita che gli Spurs poi vinceranno di venti, Duncan risponde all’ennesima provocazione di KG: «Smettila, sei ridicolo», dice, e si allontana, come ha sempre fatto (e sempre farà) in queste circostanze. Ma Garnett insiste e, alla fine, riesce a tirarlo dentro quella gara di insulti, che non ha mai rappresentato il terreno più congeniale per Tim. Arriva l’espulsione per entrambi, la prima in carriera per Duncan. Che in quel momento realizza di odiare Garnett, venendo cordialmente ricambiato.
Gli opposti che si attraggono
Tra il 2002 e il 2004 Duncan e Garnett monopolizzeranno il titolo di MVP. E, tra il 1999 e il 2014, in otto occasioni su 16 le loro squadre saranno presenti alle Finals. Eppure il filo rosso che lega due giocatori così iconici e generazionali è in due istantanee che raccontano di una vicinanza insospettabile.
Il 17 giugno 2008, al TD Garden, i Boston Celtics affrontano i Los Angeles Lakers in gara-6 delle Finali, in vantaggio 3-2 nella serie e con l’opportunità di festeggiare davanti ai propri tifosi. Con cinquanta secondi al termine del secondo quarto, Garnett gioca in pick & roll con Paul Pierce e riceve nel pitturato all’altezza della linea dei tiri liberi: la sua è un’autentica esplosione verso il canestro solo parzialmente attutita dall’impatto con Lamar Odom che lo manda per terra per il gioco da tre punti che chiude partita e serie con un’ora d’anticipo. I Celtics sono avanti 53-35: è il momento che Garnett aspetta da tutta la vita. Si rialza, abbracciato da Perkins, si batte il pugno sul cuore e alza il braccio al cielo. Per anni era stato il punto fermo di una squadra che non riusciva ad attrarre grandi giocatori e non riusciva a tenersi quelli bravi che già aveva; e, nel giro di una sola stagione, si era dovuto ricostruire come leader di un team pensato per vincere, con tanti giocatori del suo livello. La pressione dell’ultima occasione, del non poter più fallire, avrebbe potuto schiacciarlo: con quel gesto, semplicemente, Garnett se ne libera, insieme alle delusioni in postseason accumulate negli anni di Minneapolis. Senza fronzoli, senza effetti speciali, senza la necessità di dire qualche parola di troppo all’avversario: alla Tim Duncan, insomma.
Gli highlights di Garnett nella decisiva gara-6 contro i Lakers
Cinque anni dopo, con i Miami Heat avanti 90-88 nell’ultimo minuto di un’agonica gara-7, Tim Duncan riceve in post da Manu Ginobili. Per l’ennesima volta in carriera Gregg Popovich si affida a lui nel momento dello sforzo supremo in una partita senza domani: Tim, con un movimento che è ormai parte della sua memoria muscolare, si “svita” sul piede perno, aggira Shane Battier e va per il semigancio che non può mai uscire e che, invece, esce, così come il successivo tap-in. Quella che segue è l’unica occasione in cui Duncan cede all’emotività durante una partita di quella importanza: prima si nasconde la testa dentro la maglia rientrando in difesa, poi batte violentemente la mano sul parquet con lo sguardo spiritato di chi vorrebbe subito rubare la palla a LeBron James per un’altra occasione, infine quasi scoppia in lacrime durante il timeout successivo. Sa già che gli Spurs quella partita la perderanno, sa già che non riuscirà mai a perdonarselo. In quel momento Tim Duncan è Kevin Garnett nella sua forma più pura.
Gli ultimi minuti della tremenda gara-7 delle Finals 2013 tra Spurs e Heat: dopo un errore che sarà decisivo Tim Duncan si dispera come mai accaduto in carriera
«Ben più delle vittorie a essere importanti sono state le lezioni che ho appreso dopo le sconfitte», ha detto a ESPN commentando la sua prossima introduzione nella Hall Of Fame e, più in generale, una carriera passata a perfezionare l’arte di scomparire all’interno del sistema più affidabile e vincente degli ultimi vent’anni, per diventarne il centro di gravità permanente.
In effetti, senza quella delusione probabilmente non sarebbe tornato alle Finals la stagione successiva per la rivincita. Così come senza Garnett difficilmente sarebbe riuscito a segnare così tanto e così a lungo un periodo storico della Nba riconosciuto e riconoscibile con e grazie a loro. Una lotta per il primato che avrebbe potuto (e, per alcuni, dovuto) dividerli e che invece ha finito per unirli. Anche se solo per una notte.