L’11 giugno 2005 ero allo stadio perché lavoravo, dovevo fare la cronaca della partita. In via del tutto eccezionale, “per scaramanzia”, era venuto anche mio padre. Era venuto apposta anche mio cugino da Milano, erano venuti i miei amici, i miei colleghi, erano venuti tutti. Ed erano venuti a Marassi, metà della città era venuta a Marassi, perché quello era il giorno in cui il Genoa avrebbe vinto – avrebbe dovuto vincere per forza – contro il Venezia già retrocesso. Per poter finalmente ritornare in Serie A, il posto dove il club più antico d’Italia, quello dove è stato fondato il calcio nel nostro Paese, meritava di stare.
Ovviamente eravamo andati sotto dopo 13’, avevamo sofferto tutto il primo tempo e poi, allo scadere, Milito (sì, Milito giocava nel Genoa, come Palacio e Thiago Motta, ma lasciamo stare, storia lunga) aveva pareggiato. Galvanizzati, nel secondo tempo eravamo andati in vantaggio con il capitano Marco Rossi, la bandiera, ma eravamo stati ripresi con un gol di Oliveira a mezz’ora dalla fine. Ci aveva pensato di nuovo il Principe, 4 minuti dopo, facendo venire giù lo stadio, a portarci sul tre a due. Altri 25 minuti di sofferenza disumana, assoluta, con tutti in piedi, scalmanati a cantare, «Coi pantaloni rossi e la maglietta blu / è il simbolo del Genoa la nostra gioventù», l’inno e mille altri cori ancora. La gente malediceva, imprecava: ce l’aveva con l’arbitro, con la Sampdoria, con la vita.
Poi, alla fine, quei tre fischi. Incredibile: nonostante le mille sfighe, nonostante l’essere da sempre artefici di un destino balordo, come diceva Brera, ce l’avevamo fatta. Avevamo, al plurale: ce l’aveva fatta la squadra, la città, i caruggi; ce l’avevano fatta i palazzoni popolari di Oregina e le ville degli avvocati di Albaro, quelli dei quartieri di ponente davanti al porto, e quelli dei viali di Nervi. Eravamo tornati in Serie A. Stavolta non era finita come sempre, cioè male. Avevamo vinto noi. Era partito un corteo direttamente dal Ferraris, che diventava sempre più grosso con tutti che si aggiungevano man mano: dalla redazione mi avevano chiamato per dirmi: «seguilo», e io ovviamente non aspettavo altro. Era venuto anche mio padre, mio cugino con la bandiera. Eravamo andati in piazza De Ferrari, la gente si buttava nella fontana, con le A grosse di legno e polistirolo, le persone si abbracciavano, l’incubo era finito, la felicità era lì e ora.
Titoli di domenica 24 luglio: «Accuse di brogli: la procura federale chiede la retrocessione in Serie C per il Genoa».
Titoli di lunedì 8 agosto: «È finita: Genoa in Serie C».
Ora: se uno parte da presupposti del genere, se uno ha l’esistenza segnata da storie simili, guardare Sunderland ‘Til I Die su Netflix diventa un esercizio di resistenza, come infliggersi Autumn in New York” e Marriage Story uno dopo l’altro se ti sei appena lasciato. La prima stagione, quella che ha fatto gridare al clamoroso gli appassionati, la conosciamo tutti: c’è questa squadra, un po’ gloriosa e un po’ sfigata, ultimo scudetto nel 1936 (il Genoa nel 1924, a parte quello rubato dai fascisti l’anno dopo: altra storia pazzesca e segnante) che retrocede in B, o come la chiamano gli inglesi per darsi un tono, in Championship.
Gli episodi sono anche belli, ma è già chiaro dal primo come andrà a finire: l’amministratore delegato bellone e un po’ filosofo, i giocatori mercenari, l’allenatore blasonato che ha sempre fatto bene ma quando arriva da loro fa male, i gol sbagliati, i portieri scarsi. Insomma: se uno sa cosa vuol dire sofferenza capisce immediatamente. Verrebbe da dirlo subito a questi fratelli, a questi parenti del nord est dell’Inghilterra che ancora credono, sperano, gioiscono, anelano: «Ragazzi», anzi, in dialetto, figgeu, «se deve andare male a quelli come noi andrà male di sicuro». E infatti lungo le puntate la gente piange, i difensori sbagliano, gli attaccanti non segnano. E il Sunderland al posto di risalire retrocede ancora.
Ora c’è pure una seconda stagione, forse per dilettare quelli che tifano per gli squadroni e godono nel vedere i più deboli soffrire; per divertire quelli che non sanno cosa voglia dire andare a giocare contro il Lumezzane o il Pizzighettone (detto con tutto rispetto, per carità). Ma, insomma, dopo la prima stagione i produttori devono aver pensato: ma guarda che successo, tanto ora risaliranno, per forza, facciamo anche la seconda. Errore fatale. O almeno: errore fatale per i deboli di cuore e di squadra come noi.
E quindi il calvario ricomincia: nuovi proprietari che promettono meraviglie, il ragazzo cresciuto lì che diventa capitano, la gente che fiduciosa si abbona comunque (31mila spettatori alla prima partita contro il Charlton). C’è pure il prete che dice messa davanti ai fedeli con la maglietta bianca e rossa, ci sono quelli che si fanno seppellire con la divisa della squadra. E, anche qui, basta un fotogramma per capire come finirà: l’attaccante del vivaio che fa mille gol e che puntualmente viene venduto, le vittorie facili che diventano pareggi, la nuova punta che non segna. Una via crucis, la solita.
Io di proposito non ho voluto controllare su Google, ma tanto lo sapevo: questa povera gente di una città piena di sfighe – lì sono le nevicate e il lavoro che non c’è, a Genova sono le alluvioni e il lavoro che non c’è – che arriva pure in finale in Checktrade Trophy, va a giocarla a Londra – dove la schifano anche un po’– e perde. Poi, ovviamente l’epilogo: vanno ai play off, vincono, arrivano in finale, tornano di nuovo a Londra e… e niente, la fine è proprio quella: perdono, perdono ancora, perdono sempre. Pure con un autogol. E hai voglia a dire: ci riproveremo, il prossimo è l’anno buono. Sì, magari, glielo auguro pure. Ma il calcio si gioca anche sui destini. E quello di alcuni è segnato: «È la stella che vogliamo / perché noi non ci arrendiamo», canta sempre e comunque la gradinata nord del Ferraris. «Ha’way the lads», è scritto sullo Stadium of Lights di Sunderland. Si è maledetti. Nostro malgrado.