Cosa si sta dicendo di The Last Dance, il documentario sui Bulls del 1997/98

Se ne sta parlando molto bene, e i primi due episodi hanno registrato un'audience altissima.

Dal 20 aprile su Netflix è disponibile The Last Dance, un documentario sull’ultima stagione dei Chicago Bulls con Michael Jordan e Phil Jackson in panchina – che si concluse con il sesto titolo Nba vinto dalla franchigia. Un evento, più che un semplice documentario, perché tramite immagini di repertorio, testimonianze, interviste, racconta una delle squadre più leggendarie di ogni epoca e di ogni sport, scegliendo un’angolatura non scontata: il momento in cui, da squadra ancora vincente e che sarebbe rimasta vincente, gli automatismi interni alla franchigia si stavano sgretolando. L’attesa intorno a The Last Dance è stata palpabile, e i riscontri sono piuttosto eloquenti: su Espn, che lo ha distribuito negli Stati Uniti, i primi due episodi del documentario su Jordan e compagni sono stati visti da una media di 6,1 milioni di spettatori (con punte di 6,3 milioni). Due confronti per approfondirne il successo: è il documentario più visto nella storia di Espn, quasi doppiando i 3,6 milioni di audience per You Don’t Know Bo, e la fetta di pubblico di The Last Dance rappresenta il 40 per cento dell’intera audience registrata per le ultime Finals di Nba.

Le impressioni dei media internazionali sono state molto positive. The Guardian lo ha definito «eccellente», sottolineando come il racconto della figura preminente di Jordan ci sveli molto di più della semplice dimensione dell’atleta: «È difficile sfuggire alla sensazione che essere Jordan – possedere quel corpo, imbrigliare quel talento, incanalare quella spinta per essere il migliore – fosse terribilmente difficile. L’uomo che emerge da queste dieci ore è eroico, assurdo, esigente, complicato, talvolta completamente dispotico – e in qualche modo ancora più attraente per i suoi difetti. Gli importava una cosa, e una sola: vincere. Quando si coglie la singolarità su cui era esclusivamente concentrato, tutto il resto diventa sensato». E ancora: «The Last Dance ci ricorda quanto fosse magnetica la sua personalità, quanto potesse essere carismatico o divertente».

Il New York Times elogia la ricchezza visiva che la miniserie offre: «Un oceano di vecchie partite, montaggi di schiacciate, sigari fumanti, coltellate dietro la schiena, lacrime trattenute, interviste con chiunque in Nba, dal 1984 al 1998, abbia anche solo sbattuto le palpebre». Godersi un inedito dietro le quinte è il fine ultimo, i rapporti umani, gli alti e i bassi di una stagione indimenticabile, perché il documentario non vuole certo avere la pretesa di raccontare l’impatto di Jordan e di quella squadra da un punto di vista meramente tecnico: «Questa serie non ha una grande domanda da porre. Nessun pensiero emerge su come Jordan abbia lasciato la lega, o come sia cambiato questo sport dopo di lui».

Vulture si spinge oltre, con un titolo che parla da sé: «The Last Dance è il rimedio perfetto per questi giorni senza sport. Sarebbe stato un grande documentario sportivo di successo in ogni circostanza, ma in questi tempi strani che la gente di tutto il mondo sta vivendo è come un’oasi in un momento di siccità. La serie risponde a una serie di esigenze: dà alla gente qualcosa da guardare. The Last Dance è un ampio racconto: segue il percorso dei Bulls nella vittoria del loro sesto titolo, ma va anche indietro nel tempo, per spiegare come Jordan sia passato dagli anni universitari a essere considerato un’icona Nba e uno dei personaggi più famosi della Terra».