Pochi giorni fa, il New York Times ha deciso di sospendere la pubblicazione, sulla sua edizione cartacea della domenica, degli inserti dedicati ai viaggi e allo sport. Al loro posto, una nuova sezione chiamata “At Home”, tips e riflessioni su come trascorrere al meglio – in casa, appunto – la convivenza forzata con il virus. La decisione del Nyt ha un senso pratico – lo sport non scompare del tutto dalle pagine del giornale, ma viene destinato soltanto a una piccola nicchia, anonima, secondaria, ora che la macchina agonistica si è arrestata – ma soprattutto ha un significato non banale: senza lo sport giocato, tifato, masticato, non c’è sport raccontato.
Lo sport, il racconto dello sport, nel panorama mediatico generalista ha una funzione precisa: quella di proporsi come un tema leggero, per spezzare il tono serioso e a tratti angoscioso delle notizie preminenti – che siano temi politici, economici o di cronaca. Il fatto che arrivi in coda è quasi una sottolineatura del suo ruolo, quello di “addolcire” l’attualità. Da mesi, però, gli appassionati fanno i conti con un’attualità sportiva completamente sconosciuta, disseminata di tamponi ai calciatori, rifacimenti utopici di calendari, club a rischio bancarotta e infiniti botta e risposta se tornare a giocare oppure no. Sono i temi del momento, sono i temi che nessuno di noi – che abbiamo a cuore il destino nello sport nella sua accezione più genuina – può ignorare. Ma sono temi estranei al linguaggio proprio dello sport, ed è la fotografia perfetta di come la pandemia abbia allungato la propria ombra ovunque, su ogni aspetto della nostra vita, foss’anche il più frivolo.
Le pagine sportive italiane, tra fine febbraio e inizio marzo, hanno pian piano cominciato a cambiare faccia, con le cronache delle partite, le polemiche sul Var, le dichiarazioni degli allenatori e le formazioni della vigilia soppiantate dalla situazione legata alla diffusione del virus. Su alcune prime pagine della Gazzetta delle passate settimane campeggiano titoli che non abbiamo mai visto nelle nostre vite: “Serie A chiusa per virus”, “Scudetto in quarantena”, “Lo sport si ferma”. La cronaca sportiva è stata forzatamente assorbita dall’attualità più stringente, sottraendoci quella piccola isola felice che aveva anche uno scopo, per così dire, taumaturgico: sfuggire alle preoccupazioni della giornata con il nostro personalissimo placebo.
I media sportivi senza sport sono difficili da intendere, per chi li fa e per chi li legge o li guarda, sono una struttura senza gangli nervosi, dove le ramificazioni non vanno da nessuna parte, ma producono un sibilo fioco, inconcludente. Per questo – mettendo da parte eventuali valutazioni se sia giusto, sicuro e corretto riprendere l’attività agonistica – il fatto che le squadre di Serie A stiano tornando ad allenarsi, anche se lentamente e gradualmente, in un modo diverso dal passato, è una bella notizia per tutti. È qualcosa che ci fa stare meglio. Anche nel più convinto assertore di fermare tutto, cova una minuscola speranza di tornare alla normalità, e che a trainarla sia proprio lo sport.
Il punto è proprio questo: lo sport è quella cosa che permette di distrarci dalla routine, che ci dà uno spazio di leggerezza, di spensieratezza quasi fanciullesca, in cui ritroviamo la freschezza e l’eccitazione delle cose che ci piace fare – come può essere passare due ore al cinema, o fare un aperitivo con gli amici. È la normalità, appunto, è la normalità che ci siamo scelti, e senza di tutto questo la situazione anomala che stiamo vivendo si carica di un ulteriore, abissale smarrimento.