Generazione Gilles

Che cosa resta della carriera e della vita di Villeneuve? Un ricordo di chi ha vissuto il suo mito e la sua fine.

Immaginate di essere alla guida di un’auto che viaggia a 250 km/h e all’improvviso sbanda e va in testa-coda. Se siete un normale guidatore, ammesso che abbiate mai raggiunto quella velocità, la reazione non può essere che il panico. Se siete un pilota di Formula 1, mantenete la calma, quasi immobili, stringendo il volante e sfiorando il freno, aspettando che l’auto si fermi possibilmente non contro il guardrail. Se siete Gilles Villeneuve, fareste quello che ha fatto decine di volte: volante-cambio-frizione-acceleratore, continuando a guidare, in attesa di trovare un momento di riallineamento con la strada per ripartire. Senza toccare i freni. Ma di Gilles Villeneuve ce n’è stato solo uno. Irripetibile. È questo che lo rende immortale a quasi 40 anni dal volo della sua Ferrari 126 C2 nella maledetta curva di Zolder. Dalle motoslitte in Canada alla F1, passando per le innumerevoli corse in autostrada dalla Costa Azzurra a Maranello, non c’è mezzo che Gilles non abbia guidato oltre il limite. Anzi, scoprendone il limite ogni volta per capire fino a che punto poteva spingersi.

Il 18 gennaio Gilles Villeneuve avrebbe compiuto 70 anni. Oggi potrebbe essere una vecchia gloria come il suo amico ed ex compagno di squadra Jody Scheckter, nato il 29 gennaio 1950. O come il rivale di sempre René Arnoux, oggi allegro 71enne. Villeneuve però ci ha lasciati da tempo, l’8 maggio 1982. A 32 anni. Giusto un paio di mesi prima della vittoria degli Azzurri ai Mondiali di Spagna. E come la Nazionale di Bearzot è entrato in un immaginario condiviso da chi, allora, tifava Italia e Ferrari. La “Generazione Gilles” coincide con la “Generazione Paolo Rossi”, nata dalla tripletta segnata dal centravanti azzurro al Brasile. Il tratto che unisce le due epiche dello sport ha a che fare con il coraggio. Era coraggio (unito a testardaggine) quello con cui Bearzot sfidò la quasi totalità dei media e degli addetti ai lavori, pur di mantenere il suo gruppo e i suoi schemi di gioco. Era coraggio quello che Enzo Ferrari vide nel giovane canadese che gli ricordava Nuvolari e decollava spesso verso guardrail e reti di recinzione (lo avevano soprannominato “Air Canada”). Il coraggio di Villeneuve, però, era quello dei primi astronauti, uomini che si facevano sparare nello spazio per cercare di capire dove era il limite dell’ingegno umano.

Di quegli esempi che noi, adolescenti di allora, vivevamo con gli occhi sgranati, è difficile vedere le tracce e i postumi negli adulti di oggi. Una cosa, però, possiamo essere: testimoni. Possiamo farci carico di testimoniare alle nuove generazioni chi erano Paolo Rossi e Gilles Villeneuve. Di Pablito, a me restano i ricordi di adolescente pratese orgoglioso del proprio concittadino, le feste e le parate con le Vespa 50 che facevamo sotto casa sua, nel quartiere Santa Lucia, a ogni vittoria “mundial”. Ma Paolo Rossi abbiamo la fortuna di continuare a vederlo e ascoltarlo come commentatore sportivo. Gilles, invece, non festeggerà i suoi 70 anni. E non ha avuto la gioia di veder diventare campione del mondo di F1 suo figlio Jacques, che oggi ci racconta il Mondiale su Sky.

La vera firma di Gilles era il controsterzo: le ruote posteriori della sua monoposto sbandavano verso l’erba, quelle anteriori andavano in senso oppostoChi era, quindi, Gilles Villeneuve? È stato il Charles Lindbergh della nostra generazione, il suo percorso è stato simile a quello del giovane polita del Minnesota, che negli anni Venti sbalordì il mondo volando attraverso l’Atlantico e atterrando a Parigi con “Spirit of St. Louis”, un aereo disegnato su misura che non aveva il parabrezza anteriore – al suo posto c’erano mega-serbatoi di carburante. Prima di arrivare a tale conoscenza del mezzo, Lindbergh lo aveva spinto fino al limite, per capire dove era posto. E spesso era andato a schiantarsi. Gilles Villeneuve aveva cominciato a ignorare i limiti da piccolo, sulle strade innevate nei pressi di Montreal, sfasciando trattori e auto di famiglia. Poi era passato alle motoslitte e alle prime monoposto da corsa, vincendo tutto quello che c’era di vincere nel campionato Can-Am e in Formula Atlantic.

Gilles correva sempre. Viaggiava a velocità folle sulle strade del Québec, per andare a trovare la fidanzata e futura moglie Joann, esercitandosi nel gestire i testa-coda con la “manovra del contrabbandiere” – un colpo secco di freno a mano e completa rotazione dello sterzo, per girare l’auto di 180 gradi e ripartire, come facevano i contrabbandieri di alcool per sfuggire alla polizia. Per tutta la vita, quando non era su una monoposto ma in strada, Gilles avrebbe guidato una fuoriserie con la mano destra che si muoveva frenetica tra cambio e freno a mano. Negli anni in cui era alla Ferrari, volava sulle autostrade italiane; ogni tanto lo fermava una pattuglia della Stradale e la scena era sempre la stessa: “Ehi, ma è Villeneuve!”. E tutto finiva con la distribuzione di foto con dedica che Gilles teneva pronte sul sedile di dietro.

Nelle corse sulle motoslitte, Villeneuve aveva acquisito la velocità di reazione che lo rese il re delle partenze, e un campo visivo allargato, più ampio di un normale pilota. Ma la vera “firma” di Gilles in pista era il controsterzo. Provate a cercare su Google le immagini della Ferrari n. 27 di Villeneuve, e troverete un gran numero di scatti che mostrano una monoposto con le ruote posteriori che sbandano verso i cordoli e l’erba e le anteriori in controsterzo per mantenere la traiettoria. Villeneuve proveniva da una famiglia modesta e i suoi anni prima della Ferrari sono da vagabondo delle piste. Con Joann, i figli Jacques e Mélanie e il loro cane, vivevano in un motorhome che si spostava di gara in gara, in Canada e negli Usa. Anche dopo il salto in Formula 1, nei primi anni Gilles non si separò dal motorhome e da Joann e i bambini: nel “circus” della velocità, loro erano quelli che vivevano davvero una vita circense, dormivano nei paddock, mentre tutti i piloti alloggiavano in alberghi a cinque stelle.

Gilles Villeneuve e René Arnoux nel 1982, prima del Gran Premio del Sudafrica: il pilota francese fu il successore di Villeneuve in Ferrari, a partire dal Mondiale del 1983 (AFP via Getty Images)

Il 16 luglio 1977, la McLaren gli mise a disposizione una macchina per debuttare in Formula 1 sul mitico circuito inglese di Silverstone. Durante le prove, Villeneuve finì diverse volte in testa-coda, ma senza mai danneggiare l’auto. Stava imparando a domare uno dei mezzi più potenti al mondo, e lo faceva in un modo brutale, rischiando la vita a ogni curva. I suoi tempi calarono giro dopo giro e alla fine Gilles debuttò in sesta fila, in mezzo a campioni come Hunt, Lauda, Reutemann, Peterson, Andretti. Concluse il Gp all’undicesimo posto, fu il decollo della carriera in F1. A Maranello, Enzo Ferrari seguì in tv il debutto del canadese e decise che lo voleva subito nella sua scuderia. Il 29 agosto, Gilles entrò intimidito nell’ufficio del Grande Vecchio e si sentì dire: «Bene, bene, ragazzo, di quanto hai bisogno per essere soddisfatto? Di quanto ti accontenteresti?». Era nato un amore.

Il 1978, la prima stagione completa di Villeneuve alla Ferrari dopo l’assaggio dell’anno precedente, non fu facile. Gilles sfasciò l’auto in sei dei primi sette gran premi, e da più parti si levarono voci che chiedevano la sua sostituzione con l’italiano Elio De Angelis. Ma Enzo Ferrari lo difese sempre. Alla fine del campionato Gilles vinse il suo primo Gran Premio, proprio in Canada, così ogni dubbio su di lui si dissolse. Era la premessa per un anno straordinario, il 1979. Enzo Ferrari e l’ingegner Mauro Forghieri affidarono a Villeneuve e al suo nuovo compagno di squadra, Jody Scheckter, la 312 T4, un gioiello con cui i due giovani piloti dominarono su ogni circuito. Finì con il sudafricano campione del mondo e Gilles secondo. La stagione culminò nel GP di Monza, in cui Villeneuve si mise diligentemente a coprire le spalle in seconda posizione a Scheckter senza attaccarlo per il primato. Fu anche l’inizio di una grande amicizia tra i due piloti, un’armonia che sembrò ripetersi in seguito con la coppia Villeneuve-Pironi, prima che tutto finisse in litigio e in tragedia.

Villeneuve alla guida della sua Ferrari durante il Gran Premio di Monaco del 1981: il canadese ha vinto quella gara, precedendo di 39 Alex Jones, pilota australiano della Williams (Gerard Fouet/AFP)

L’Italia impazziva per Gilles, in quegli anni solo un altro sportivo generava lo stesso entusiasmo, perché era sopra le righe come Villeneuve: John McEnroe, il grande rivale di Bjorn Borg.Ancora, il 1979 fu l’anno della maturità di Gilles, ma senza mai rinunciare a niente della sua foga. Il duello ruota a ruota con la Renault di Arnoux a Digione è diventato uno dei momenti storici della Formula 1. L’Italia nel frattempo era impazzita per Gilles, in quegli anni solo un altro sportivo generava lo stesso entusiasmo, perché era sopra le righe come Villeneuve: John McEnroe. Era il periodo delle mitiche sfide con Bjorn Borg, inclusa la storica finale di Wimbledon 1980. Se Borg poteva essere paragonabile a Lauda, Gilles assomigliava a McEnroe come grinta durante le gare, ma era molto lontano dall’americano come carattere. Proprio nel 1980, la Ferrari si concesse una stagione da dimenticare: la macchina era sbagliata, le Williams erano di un altro pianeta, Gilles e Scheckter rimasero quasi sempre lontani dal podio. La riscossa avvenne l’anno dopo, con l’arrivo del turbo e del francese Didier Pironi accanto a Villeneuve. Sembrò ripetersi la magia dell’unione con Scheckter, forse anche più intensa. Perciò eravamo tutti certi che il 1982 sarebbe stato il suo anno, quello della vittoria mondiale. La nuova 126 C2 prometteva bene, la coppia Villeneuve-Pironi era rodata, le Renault e le auto britanniche non sembravano più irraggiungibili. I primi tre GP andarono benino, ma molti episodi sfortunati impedirono a Gilles di salire sul podio.

Poi arrivò quel maledetto Gran Premio di San Marino. Il 25 aprile 1982, all’Autodromo Dino Ferrari, le Renault di Arnoux e Prost erano le auto da battere e dominarono per i primi giri, seguite dalle Ferrari. Poi Prost si ritirò e divenne una gara a tre: due rosse contro Arnoux, sorpassi e controsorpassi. Al 44esimo giro l’auto di Renè emise una grande fumata, gli spalti esplosero in un tripudio di bandiere con il Cavallino rampante. Gilles e Didier si diedero battaglia per un po’, poi dai box uscì il cartello “Slow” per invitare i due piloti a darsi una calmata. Sembrava dovesse ripetersi l’arrivo di Monza 1979, con Villeneuve in testa e Pironi a lasciargli la vittoria. Il canadese rallentò, ma il compagno di squadra continuò a spingere, passandolo. Gilles si mise a dar battaglia e al penultimo giro era in testa. A quel punto pensava fosse finita, ma Pironi lo passò con una manovra aggressiva poco prima del traguardo. Gilles ne uscì traumatizzato e furibondo. Non si parlarono più. Seguirono giorni di polemiche durissime e accuse a distanza, con il team che cercava invano di riportare la pace. La Formula 1 è ricca di storie di rapporti difficili tra compagni di squadra, ma quella ferita che si aprì in casa Ferrari fu sorprendente, perché arrivò a freddo, e sembrò subito insanabile.

Il box Ferrari al Gran Premio d’Austria del 1979, terza stagione di Villeneuve in Ferrari dopo l’esordio in McLaren (Photo Getty Images)

Il 1982 doveva essere l’anno del trionfo, invece si rivelò tragico: dopo la morte di Villeneuve, anche Didier Peroni, suo compagno in Ferrari, ebbe un incidente gravissimoVilleneuve si sentiva tradito, era sconvolto e arrivò con questo stato d’animo, due settimane dopo, al GP del Belgio sul terribile circuito di Zolder. Il resto è la storia di una tragedia di cui rimangono immagini impressionanti: Gilles è lì, cupo nei box che non parla con nessuno, poi scende in pista furioso nelle prove del sabato; a 15 minuti dalla fine, uscendo da una curva a 225 km/h, si trova davanti la March di Jochen Mass. «Vidi Gilles negli specchietti», ha raccontato Mass, «e pensai che mi avrebbe superato a sinistra. Mentre mi spostavo sulla destra, lo vidi passare sopra di me. Toccò la mia gomma posteriore destra, rimbalzò su quella anteriore e poi venne proiettato in aria». La Ferrari si disintegrò e tutti noi della Generazione Gilles, per giorni e giorni, fummo costretti a rivedere le immagini di Villeneuve attaccato al sedile che si sganciava dalla monoposto e volava via per sempre. La corsa all’ospedale fu inutile, morì quella sera stessa.

Quello che doveva essere l’anno del trionfo si rivelò tragico. Noi ferraristi ci dividemmo su Pironi e le sue responsabilità, mentre la scuderia rossa sembrava vittima di un sortilegio. Prima ci fu il GP del Canada, dove l’auto di Pironi rimase bloccata al via e venne investita dal debuttante Riccardo Paletti, che morì sul colpo. Poi nel GP di Germania, quando Pironi era vicino a vincere il titolo, il nuovo dramma: stavolta toccò alla sua 126 C2 prendere il volo e schiantarsi. Pironi sopravvisse, ma con un numero di fratture inimmaginabile. La sua carriera però era finita, e anche la sua vita non durò a lungo: morì nel 1987, gareggiando su un motoscafo offshore. L’angoscia per quello che era accaduto nel 1982 tra lui e Villeneuve lo accompagnò per sempre ed è testimoniata dalla decisione presa dalla sua compagna: poco dopo la morte di Pironi, diede alla luce due gemelli e li chiamò Didier e Gilles.

Che resta, oggi, di Gilles Villeneuve? Tra le tante immagini epiche, sicuramente la consapevolezza che lui, come tutti i miti, come tutti gli uomini, era tutt’altro che perfetto. Aveva i suoi lati oscuri e se fosse vissuto più a lungo, forse sarebbero diventati dominanti. Per esempio, gli anni del successo lo avevano cambiato, la “famiglia perfetta” che girava nel motorhome non era più tale: nel 1982 lui passava il tempo immerso nei suoi giocattoli, primo tra tutti un elicottero, allontanandosi sempre più da Joann e dai figli. L’amico Scheckter non lo aveva abbandonato, ma difficilmente Gilles avrebbe scelto di fare come lui, di ritirarsi per dedicarsi a una vita serena con altri interessi. Cercare di immaginare il Villeneuve settantenne di oggi, in fondo, è un esercizio inutile. Non esistono eroi senza ombre e questo li rende più vicini a noi. È meglio ricordarlo mentre sfida il limite sulla Ferrari in testacoda e controsterzo, per capire fin dove poteva spingersi la sua voglia di vita e di velocità.

Dal numero 32 di Undici