Com’era il Manchester City prima degli sceicchi

Una squadra con dei buoni giocatori, come Ireland, Richards, Elano, che però hanno dovuto lasciare quando sono cresciute le ambizioni del club.

Nel vasto catalogo dei romanzi di formazione, un piccolo spazio nella letteratura italiana se lo è ritagliato Agostino di Alberto Moravia. Pubblicato nel 1952, parla del tredicenne Agostino, che sulla spiaggia di Viareggio si trova a vivere il passaggio controverso dall’età adolescenziale a quella degli adulti. Un momento che il ragazzo, nel suon quotidiano, vive spesso con l’impossibilità di avere accesso a qualcosa: una casa, un gioco, un’esperienza fondamentale. E soprattutto, alla fine, nel momento topico dell’ingresso nella casa delle prostitute, gli viene chiaramente detto: “no, non puoi entrare”. Agostino non è pronto per certe cose.

Nel libro di Moravia, ogni momento rappresenta una sfida per poter diventare più grande, per dimostrare di essere pronti, ma alla fine, c’è uno stop che rompe l’incanto, e le certezze faticosamente raggiunte da Agostino fino a quel momento vengono cancellate con una parola, o un piccolo gesto. Così ad Agostino non rimane che tornare da sua madre, e guardare – da lontano – i divertimenti “adulti” di quegli adolescenti che non lo anno accettato, anzi, lo hanno respinto. Come per Agostino, non è facile neppure per un tifoso di calcio accettare quel paletto causticamente imposto dalla realtà della classifica, e della dimensione economica della propria squadra del cuore. Non ci siamo, non siamo pronti. Non siamo abbastanza.

E per anni è stato così anche per i fan del Manchester City, imprigionati nella lower class del calcio inglese fino al 2007, quando gli investimenti di due proprietà molto ricche – quella del gruppo che faceva capo al premier thailandese Thaksin Shinawatra, e soprattutto quella araba dello sceicco Al-Mubarak – hanno trasformato il club, rendendolo il brand luccicante di oggi. Perché prima dell’edonismo fatto di aspirazioni da Champions League, di Guardiola e De Bruyne, c’è stato un decennio in cui il City era una cosa completamente diversa. Essere un giocatore forte del Manchester City, esserlo nel 2003 oppure nel 2005, voleva dire appartenere a un ceto calcistico con minore visibilità. Voleva dire essere forti, in alcuni casi. Ma mai abbastanza, almeno per entrare davvero nel calcio che conta.

Uno particolarmente bravo, ad esempio, è stato Sylvian Distin, difensore centrale francese che ha vissuto la sua carriera in squadre fra l’ottavo e il sedicesimo posto della Premier League. Quando Distin ha lasciato Manchester dopo cinque stagioni, nel 2007, è andato a giocare nel Portsmouth e poi nell’Everton, club con cui ha chiuso la carriera. Ma in quell’Everton, con Moyes prima e Martínez poi, è stato titolare finché non sono arrivati giocatori più giovani, e nonostante avesse circa 500 presenze in Premier League, è finito nell’anonimato. Un destino al ribasso per un giocatore che in realtà è stato un simbolo del Manchester City dei primi Duemila, diventato addirittura capitano per alcuni mesi e che è stato una colonna della squadra. Quello di Distin è un racconto di formazione che riflette molto chiaramente le difficoltà che, in quel periodo, i migliori giocatori del Manchester City avevano nel fare un passo in più.

Una condizione che il difensore francese può condividere con Stephen Ireland. Parliamo di un giocatore talentuoso, di un trequartista old school dotato di un’importante intelligenza tattica e una proprietà di lancio sontuosa – soprattutto questa è una caratteristica che piace molto al pubblico inglese. I tifosi del City lo chiamavano Superman, e Ireland ha vissuto proprio a Manchester il picco della sua carriera. Dopo il termine della sua avventura con i Citizens, nel 2010, un attimo prima che gli investimenti degli sceicchi stravolgessero definitivamente la rosa, ha visto solo e soltanto la parte destra della classifica: Aston Villa, Stoke City, Newcastle. Il suo è stato un declino inaspettato, soprattutto se pensiamo che Ireland era uno che con l’Irlanda, nelle partite delle Nazionali, era considerato il pericolo pubblico numero uno in maglia verde. Ireland non è mai stato abbastanza per arrivare a toccare l’alta classifica di Premier, oggi ha solo 33 anni e non gioca una partita ufficiale da due anni esatti, dal 13 maggio 2018.

Stephen Ireland è cresciuto nell’Academy del City, in prima squadra ha giocato 176 partite ufficiali in tutte le competizioni, con 23 gol realizzati (Photo by Laurence Griffiths/Getty Images)

Come Ireland, pure il brasiliano Elano prometteva tantissimo e poi è stato rigettato dal City quando gli sceicchi hanno iniziato a fare sul serio. È arrivato in Premier League nel 2007, dopo tre stagioni allo Shakhtar Donetsk, ed è rimasto a Manchester per due anni. All’inizio sembrava addirittura che i Citizens stessero stretti a questo centrocampista dai piedi educati, con un buon tiro, titolare fisso della Seleçao; i tifosi del Milan ricorderanno di aver letto più volte sui giornali il suo nome nelle cronache di calciomercato, ma sembrava che anche altre squadre di grido fossero pronte ad acquistarlo. Poi però il City è diventato a sua volta una squadra di grido, e allora Elano si è trovato ai margini: nel 2009 è finito al Galatasaray, non al Milan. Oggi allena l’Internacional de Limeira, club non proprio celebre dello stato di San Paolo.

In un’epoca in cui i social stavano iniziando la loro ascesa nel panorama mediale, ampliando il raggio di trasmissione già molto esteso delle pay tv, gli eroi di un City molto meno ricco e molto meno vincente hanno pagato soprattutto questo, la scarsa influenza e gli scarsi risultati della loro squadra. Se le giocate di Ireland, di Elano, ma anche del fantasioso statunitense Claudio Reyna, del centravanti costaricano Paulo Wanchope, del centrocampista francese Antoine Sibierski fossero finite su Instagram o Youtube, chissà che il mondo non li avrebbe considerati un po’ di più. Magari, con una migliore pubblicità, avrebbero ottenuto quelle attenzioni che rendono popolare un calciatore, che gli permettono di accedere a un livello successivo – insieme al talento, ovviamente.

Micah Richards, qui a terra dopo un contrasto con Robin van Persie, ha esordito in prima squadra con il City a 17 anni, e nella stagione successiva era già titolare in Premier League; ha giocato anche in Italia, con la Fiorentina ha disputato 19 partite ufficiali nella stagione 2014/15 (Hamish Blair/Getty Images)

Anche il calciomercato ha un ruolo in questo racconto: nei primi anni Duemila, il player trading era diverso rispetto a oggi, i grandi club compravano molto di più da squadre dello stesso livello, difficilmente pescavano dei giovani in società con ambizioni inferiori alle proprie. Per più di un decennio, il City non è andato il nono posto, giocandosela alla pari con il West Ham, il Middlesbrough, il Portsmouth, non certo con i rivali cittadini dello United, il Chelsea oppure l’Arsenal. Anche qui si insinua un dubbio: se prima del 2008 i top club avessero monitorato i giovani come negli ultimi anni, non è che forse avremmo visto Micah Richards al Bayern Monaco oppure alla Juventus? Del resto parliamo di uno che veniva considerato tra i più brillanti difensori e giocatori della sua generazione, che è arrivato a indossare la fascia di capitano dei Citizens partendo dalle giovanili, che ha vinto il titolo del 2012 da protagonista, e che solo quando la concorrenza si è fatta troppo forte, troppo spietata anche per lui, ha dovuto lasciare il passo.

Proprio Richards, più che Ireland o Elano, può essere considerato il simbolo del Manchester City prima degli sceicchi: una squadra che aveva elementi di qualità, che potevano tranquillamente giocare da titolare in Premier League, ma poi il City è entrato nel giro dei top club dalla porta principale, e allora loro sono rimasti a guardare, da dentro o da fuori ma comunque fermi, ben lontani da quel calcio così scintillante, così difficile. Certi giocatori del Manchester City negli anni Duemila sono rimasti esclusi dalla cerchia dei grandi campioni forse per destino, anche se una possibilità la avrebbero potuta meritare.