Cosa significa il fallimento del Tianjin Tianhai, il primo nella storia del campionato cinese

Il modello di business legato agli investimenti delle grandi aziende funziona, ma solo a breve termine.
di Redazione Undici 12 Maggio 2020 alle 11:20

Esattamente due anni fa, il 15 maggio 2018, il Tianjin Quanjian eliminava i connazionali del Guangzhou Evergrande – il club cinese con il miglior palmarés internazionale, e che ha vinto otto delle ultime nove edizioni della Super League – dalla Champions League asiatica. Oggi il Tianjin Quanjian non esiste più, non solo perché nel frattempo ha cambiato nome – da circa un anno si chiama Tianjin Tianhai – ma anche perché è la prima squadra nella storia della Chinese Super League a dichiarare bancarotta. Ora il suo posto potrebbe essere preso dallo Shenzen, la squadra allenata da Roberto Donadoni, ma intanto va analizzato il primo fallimento in una lega che sembrava doversi e potersi affermare come nuovo eldorado per i giocatori di tutto il mondo, e che invece ha dovuto fare i conti con diverse problematiche, economiche e non solo.

Il caso del Tianjin è emblematico: il club rappresentava una mercato enorme, l’undicesima città al mondo per popolazione (circa 15 milioni di abitanti nell’area metropolitana). Proprio questo potenziale sconfinato ha attratto gli investimenti del gruppo Quanjian, che ha sede proprio a Tianjin ed è leader nella produzione e nella vendita di piante officinali, medicinali ed aromatiche. Nel 2015, il gruppo acquista la società, effettua subito un cambio di denominazione – da Tianjin Songjiang a Tianjin Quanjian – e in soli due anni la porta al vertice del calcio cinese, anche grazie a tanti nomi di richiamo internazionale tra campo e panchina: gli allenatori del nuovo corso sono Wanderlei Luxemburgo, ex Real Madrid, Fabio Cannavaro e Paulo Sousa; il terzo posto all’esordio in massima serie è merito soprattutto di Axel Witsel e Alexandre Pato, i grandi colpi di mercato messi a segno all’inizio del 2017.

A dicembre 2018, però, la squadra finisce per risentire dello scandalo che investe la proprietà, in un crudele caso di contrappasso: il gruppo Quanjian è accusato di aver causato la morte di una bambina di quattro anni malata di cancro, perché avrebbe spinto i suoi genitori ad affidarsi a metodi di medicina alternativa. Il presidente dell’azienda, Shu Yuhui, è arrestato insieme ad altri 17 collaboratori e dipendenti con l’accusa di aver avallato false operazioni di marketing, una pratica illegale in Cina. Pochi giorni dopo, Pato lascia la squadra, che a sua volta chiede alla Federcalcio cinese di subentrare nella gestione del club per poter disputare la stagione, e cambia nome per l’ennesima volta.

L’addio di una proprietà ricca e ambiziosa cambia completamente i piani del Tianjin, che pochi mesi dopo aver disputato i quarti di finale di Champions League si ritrova a dover lottare per evitare la retrocessione. La salvezza alla fine arriva, ma i conti della società restano disastrosi: in vista della stagione 2020, il cui inizio è stato posticipato a causa della pandemia, la dirigenza annuncia che le azioni del club sono in vendita a costo zero, a patto che i nuovi investitori si facciano carico dei debiti – circa 145 milioni di dollari – lasciati dalla precedente gestione. Nessuno manifesta interesse per l’operazione, e così oggi è arrivata la notizia della chiusura definitiva dell’attività.

Come detto, si tratta di un racconto breve ma esaustivo rispetto ai complicati e sottilissimi equilibri che regolano il campionato cinese. Il Tianjin è stato costruito su fondamenta economiche solide, ma solo per la presenza di un gruppo molto ricco, che sarebbe stato in grado di finanziare il club attraverso iniezioni dirette di liquidità. Il fatto che questo stesso gruppo abbia tenuto dei comportamenti – etici ed economici – poco trasparenti, e che per questo sia stato costretto a lasciare, ha mostrato il lato oscuro di questa strategia economica: i club della Chinese Super League, a seguito dei grandi investimenti alla metà degli anni Dieci, hanno fatto fatica a creare una reale sostenibilità per il proprio business, ed è un discorso finanziario ma anche sportivo.

Axel Witsel ha militato per un anno e mezzo nel Tianjin: il suo score è stato di 6 gol in 47 presene di tutte le competizioni (AFP via Getty Images)

È per questo che dalla stagione 2020 – che sarebbe dovuta iniziare a fine febbraio, ma che presumibilmente prenderà il via a luglio – la lega avrebbe voluto imporre  un salary cap di 3,3 milioni di dollari annui, anche per i giocatori stranieri. Una cifra quasi nove volte inferiore a quella che Óscar, ex trequartista del Chelsea, guadagna allo Shangai SIPG. Oltre a uno stipendio limite per ogni giocatore, la lega aveva ipotizzato di imporre anche un tetto massimo per squadra: 95 milioni di dollari.

Secondo quanto raccolto da Forbes, sarebbero esistite delle scappatoie per poter aggirare questi nuovi regolamenti, per esempio l’inserimento di bonus cospicui nei contratti degli atleti o l’utilizzo di third party e/o società di comodo in altri stati, ma l’obiettivo delle istituzioni cinesi era quello di rendere più appetibile il campionato per gli investitori attraverso la creazione di un circuito realmente virtuoso, che potesse anche alimentare la crescita dei talenti locali. L’idea era quella di limitare spese che sarebbero diventate inevitabilmente insostenibili, come nel caso del Tianjin: il primo club che ha pagato una visione non prospettica, un’idea di management sportivo come vetrina di marketing, incentrata sul qui e subito, che non poteva funzionare a lungo termine. E che non ha funzionato, evidentemente.

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