Alla Juve abbiamo visto il miglior Pjanic possibile?

Ha dovuto adattarsi, è diventato un regista, e forse questo non gli ha permesso di esprimersi al massimo.

L’avventura di Miralem Pjanic alla Juventus finirà, se finirà, lasciandosi alle spalle tantissime certezze e una serie di piccoli grandi dubbi. Magari alla ripresa dell’attività agonistica il centrocampista bosniaco e la squadra bianconera chiuderanno il loro cerchio e vinceranno la Champions League, oppure decideranno di non lasciarsi, di proseguire insieme, chissà. Se invece tutto dovesse interrompersi ora, così com’era quando è iniziato il lockdown, se Pjanic dovesse lasciare la Juve senza il grande successo in Europa, i suoi quattro anni a Torino sarebbero ricordati come un grande percorso di crescita senza un coronamento definitivo.

L’ex Roma è migliorato tantissimo, per lunghi periodi è stato uno dei giocatori più importante nell’ecosistema bianconero, non solo dal punto di vista tattico: l’impressione era che la sua leadership nel gioco si fosse estesa anche oltre il campo, dopo il quadrumvirato storico della difesa c’era e c’è Miralem Pjanic, nell’avanzamento sequenziale delle azioni come nelle gerarchie dello spogliatoio – una sensazione cresciuta dopo il progressivo declino e l’addio di Marchisio. Allo stesso modo, però, non possiamo dire con certezza di aver visto il miglior Pjanic possibile. Forse perché non è diventato il giocatore che credevamo potesse diventare, che volevamo diventasse, e questo è dovuto in larghissima parte a un fatto praticamente inoppugnabile: fin da quando è arrivato alla Juventus, il bosniaco è sempre stato il centrocampista con maggiore qualità tecnica della rosa bianconera. E allora Allegri e Sarri hanno voluto, anzi hanno dovuto schierarlo davanti alla difesa, per utilizzarlo come regista e governatore del gioco.

Solo che Pjanic non è mai stato un regista, o meglio non nasce come regista che gioca davanti alla difesa. Nel Lione si forma e si impone come trequartista di fantasia, nella Roma diventa mezzala, gioca quasi sempre come terzo di un reparto a tre accanto a un uomo d’ordine, e in giallorosso questi compiti erano affidati a De Rossi – che non è neanche un regista classico, piuttosto un organizzatore razionale del gioco. È nella Juventus che il bosniaco diventa perno centrale, quando Allegri e poi Sarri schierano il centrocampo a tre, oppure l’elemento del doble pivote che lavora più volte il pallone – quando Allegri, all’inizio del 2017, disegna il 4-2-3-1 che può trasformarsi in 3-4-3 e sfiora la vittoria in Champions League. Entrambi i tecnici hanno scelto di sfruttare la visione di gioco e la qualità di tocco di Pjanic, sul lungo e/o sul corto, ovviamente con declinazioni differenti, come ha spiegato lo stesso centrocampista bosniaco all’inizio di questa stagione: «Allegri mi diceva di cercare spesso i nostri esterni alti con i lanci, ora invece c’è Sarri e devo cercare di più la verticalizzazione palla a terra, perché ho tanti giocatori davanti a me che si muovono bene tra le linee».

Allegri e Sarri sono molto diversi tra loro, è evidente, eppure hanno fatto una scelta comune e soprattutto non casuale, basata su due fattori: il talento di Pjanic e la mancanza di un altro giocatore che fosse in grado di interpretare il ruolo di centrocampista centrale meglio di lui. Non è esagerato pensare e scrivere che la bravura del centrocampista bosniaco l’abbia quasi condannato a snaturarsi un po’, o meglio ad adattare le sue qualità a un gioco che prima non gli apparteneva, non del tutto almeno.

E lo stesso discorso vale per i suoi allenatori: Allegri al Milan ha sempre preferito utilizzare un mediano puro, di ordine se non addirittura di interdizione, nel centrocampo a tre; Sarri, invece, ha trovato in Jorginho un perfetto direttore d’orchestra del possesso palla, un giocatore in grado di fare regia muovendo il pallone in tempi e spazi molto ridotti. Con queste premesse, la sovrapposizione non è mai sembrata del tutto perfetta; certo, in alcune partite e in alcuni momenti Pjanic è stato preziosissimo, ha illuminato la scena con i suoi lanci ad aprire il campo, oppure con verticalizzazioni illuminanti, o ancora con tiri da fuori di incredibile precisione, però è come se fosse sempre mancato qualcosa.

Con la maglia della Juventus, Pjanic ha messo insieme 166 partita ufficiali in tutte le competizioni e 22 gol realizzati (Alessandro Sabattini/Getty Images)

Non è che Pjanic non sapesse o non potesse fare ciò che Allegri e Sarri volevano, vogliono, dai loro registi, ma il ruolo di regista ha fatto e fa diventare nascosta, perché meno ricorrente, una parte brillante del suo repertorio. Anzi, forse proprio quella più brillante e decisiva: la creatività in libertà. I dieci metri in verticale e in orizzontale che fanno la differenza tra un centrocampista centrale e una mezzala sembrano poca cosa a livello teorico, ma diventano uno spazio enorme a livello procedurale, quindi mentale. Pjanic non è un giocatore dal grande dinamismo – in un’intervista ha spiegato come preferisca «far correre gli avversari piuttosto che corrergli dietro» – e questo potrebbe alimentare l’idea che una posizione più statica in campo sia perfetta per lui; in realtà, il bosniaco compensa questa mancanza con una grande capacità di leggere il gioco, di muoversi preventivamente e in base alla posizione del pallone, doti che possono diventare letali in zone avanzate di campo, soprattutto se combinate con l’estrema sensibilità nel controllo, nel tocco, nel comprendere e smarcamento del compagno, con le sue splendide conclusioni verso la porta avversaria.

Da regista, Pjanic ha meno possibilità di portarsi in avanti; può farlo e spesso lo fa, ma è inevitabilmente condizionato dall’obbligo di dover tornare indietro al più presto, per occupare lo spazio che gli è stato affidato, perché deve essere lui a far ripartire il gioco, nell’azione successiva.  E poi c’è la questione difensiva: un centrocampista centrale ha l’obbligo tattico – che diventa quasi morale – di sostenere i centrali e di coprire le mezzali in fase di non possesso; Pjanic è cresciuto molto in questo aspetto, la sua intelligenza è evidente anche in certi momenti, ma i suoi tempi di intervento sugli avversari non sono sempre precisi e quindi a volte risultano molto rischiosi, spesso la sua mancanza di scatto sul breve lo porta ad arrivare in ritardo nelle chiusure sugli avversari – non a caso è stato ammonito 37 volte da quando veste la maglia della Juventus, una media superiore ai dieci cartellini a stagione.

In tutta la sua carriera, Pjanic ha disputato 79 partite di coppe internazionali, di cui 37 in Champions League con la Juventus; la stagione più prolifica è stata quella 2009/10, cinque gol realizzati in Champions League con il Lione (Alex Caparros/Getty Images)

Potenzialmente Pjanic era e resta un regista offensivo, una di quelle mezzali che organizzano la manovra in una zona di campo avanzata, un prodotto di quel gioco moderno che, in nome dei ruoli sfumati e del possesso palla, costruisce l’azione partendo sempre dai difensori e quindi ha bisogno di molti giocatori creativi in tanti punti del campo, e poi a ridosso dell’area avversaria. Alla Juve, invece, Pjanic ha incontrato due allenatori che preferiscono un regista più arretrato, una figura evoluta del vecchio centromediano, un giocatore che detta i tempi, che ha grandi incombenze nella costruzione dell’azione e deve tenere equilibrati tutti i reparti. Due allenatori che, inoltre, non avevano scelta, se non quella di affidare proprio a lui questi compiti. Le responsabilità connesse e derivate hanno finito per cambiare l’approccio di Pjanic, l’hanno reso più cerebrale e meno istintivo col pallone tra i piedi, forse più presente e continuo nel rendimento ma di certo meno imprevedibile, meno appariscente. Meno libero.

Il percorso di Pjanic alla Juventus l’ha aiutato a diventare un grande giocatore, ma forse gli ha tolto la possibilità di diventare un fuoriclasse, il fuoriclasse che ci aspettavamo sarebbe diventato a questo punto della sua carriera. A trent’anni compiuti da poche settimane, le voci su un possibile passaggio al Barcellona potrebbero dare un’ultima occasione a Pjanic, non tanto e non solo perché i blaugrana potrebbero offrirgli qualcosa di più rispetto alla Juventus, ma perché potrebbero offrirgli qualcosa di diverso. Basta scorrere la rosa a disposizione di Setién per rendersi conto della differenza: il Barça ha già un centrocampista centrale naturalmente portato a giocare davanti alla difesa, tra l’altro è Sergi Busquets, un’istituzione politica, più che tecnica, del club catalano. È già arrivato anche il suo sostituto per i prossimi quindici anni, l’uomo destinato a raccogliere la sua eredità, ed è un altro campione già affermato nonostante sia ancora giovanissimo: Frenkie de Jong. E poi ci sono due giocatori di 32 anni che sembrano destinati all’addio, e che devono essere sostituiti: Ivan Rakitic e Arturo Vidal. Due mezzali. Magari non è un caso.