Cinque The Last Dance nel calcio

Le stagioni degli addii, più o meno vincenti, di Ferguson, Zidane, Mourinho, Guardiola e Vialli.

Michael Jordan è il miglior giocatore di basket della storia e probabilmente lo sportivo più famoso della sua generazione, un leader carismatico e un compagno di squadra difficile con cui condividere lo spogliatoio. Con la sua ambizione ossessiva per la vittoria a tutti i costi, è riuscito a essere protagonista e antagonista nello stesso momento. Scottie Pippen e Dennis Rodman sono le migliori opzioni possibili nel ruolo di spalla, in campo e fuori. Un supporting cast formato da Harper, Kukoc e Kerr potrebbe fare da contorno a qualsiasi storia di successo. E coach Phil Jackson è l’unico pastore che potrebbe tenere insieme tutte queste anime al loro ultimo ballo.

Se la docuserie The Last Dance è un capolavoro, è merito anche – se non soprattutto – della storia, dei fatti realmente accaduti dentro e appena fuori il mondo dei Chicago Bulls, di certi personaggi eccezionali che hanno contribuito in maniera decisiva perché la stagione 1997/98, quella del secondo three-peat dei Bulls in otto stagioni Nba, potesse avere una sceneggiatura piena di colpi di scena, praticamente impossibile da scrivere a tavolino.

Anche nel calcio europeo, in un mondo davvero distante dal basket americano, ci sono state delle sceneggiature piuttosto simili alla serie più vista nella storia di Netflix. Perciò abbiamo scelto di raccontare alcune stagioni calcistiche vissute con il sapore dell’ultimo ballo, proprio come l’annata 1997/98 dei Chicago Bulls. Che, come abbiamo visto nella serie. avevano una certezza: non ci sarebbero più state occasioni per giocare insieme, per vincere ancora. Loro ce l’hanno fatta, altri no, ma questo è lo sport, questa è la vita.

L’Inter del Triplete (2010)

La miglior stagione dell’Inter è quella che chiude un ciclo vincente fatto di cinque vittorie in campionato, tre Coppe Italia alzate al cielo, più cinque Supercoppe, e ovviamente la Champions League. È la stagione dell’addio di Mourinho, l’allenatore più amato dai nerazzurri in epoca moderna, che era arrivato alla finale del Santiago Bernabéu sapendo che poco dopo sarebbe diventato l’allenatore del Real Madrid. «Avevo deciso dopo la semifinale con il Barcellona, perché sapevo che avrei vinto la Champions», ha detto l’allenatore portoghese in un’intervista di pochi giorni fa alla Gazzetta dello Sport.

All’inizio di quella stagione l’Inter aveva perso Ibrahimovic, passato al Barcellona nello scambio con Eto’o, e aveva rinnovato una rosa non più giovanissima aggiungendo giocatori già affermati come Milito, Thiago Motta, Sneijder. Una trasformazione necessaria per una squadra a cui mancava un ultimo obiettivo: i nerazzurri avevano bisogno soprattutto di un’affermazione in campo internazionale per legittimare le vittorie degli anni precedenti, arrivate tutte in Italia. Tant’è vero che la sconfitta con il Barcellona ai gironi di Champions aveva restituito l’immagine di una squadra dominante in territorio nazionale – per una rosa troppo superiore alla concorrenza – ma senza diritto di cittadinanza in Europa.

Invece lo sceneggiatore portoghese di quella stagione interista aveva altri programmi, e l’avrebbe trasformata nella migliore della storia del club, riempiendola di istantanee iconiche: il derby vinto 0-4 ad agosto, la finale di Coppa Italia con la Roma, il successo decisivo per lo scudetto a Siena, con lo Special One in lacrime, infine la doppietta di Milito a Madrid. Un’affermazione così importante che nei dieci anni successivi il club non sarebbe stato capace di andare nemmeno vicino a un’esperienza di quel tipo.

In due stagioni all’Inter, Mourinho ha vinto due scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana e ovviamente la Champions League del 2010 (Shaun Botterill/Getty Images)

L’addio al Bayern di Guardiola, senza corona (2016)

Guardiola sul campo dell’Allianz Arena alza il Meisterschale con gli occhi lucidi e lo sguardo triste. La vittoria del suo terzo campionato tedesco, nella primavera 2016, è il suo regalo d’addio al Bayern Monaco. Ma non è l’addio che avrebbe voluto, non è la Champions League che avrebbe dovuto riportare in Baviera. Già a dicembre 2015 era arrivata la prima notizia di mercato: l’allenatore catalano sarebbe andato via per sedersi sulla panchina del Manchester City.

Allora quel successo in Bundesliga non può essere la giusta chiusura del cerchio. Guardiola in un triennio ha costruito una corazzata destinata a cambiare le prospettive del calcio tedesco, con conseguenze destinate ad andare ben oltre le vittorie sul campo. Il riconoscimento per il suo lavoro è nelle parole dell’amministratore delegato del Bayern, Karl-Heinze Rummenigge: «Il nostro calcio gli deve moltissimo, l’ha portato al livello più alto, non solo tatticamente». Al termine del triennio Guardiola era riuscito a trapiantare in Germania l’idea del juego de posicion – che è molto più del semplice passarsi il pallone, o pressare alto – che aveva conosciuto e perfezionato in Catalogna: proprio come Tex Winter, assistente di coach Phil Jackson, aveva portato a Chicago la triangle offense, una strategia d’attacco – ma, per estensione, un modo di intendere e giocare il basket – che aveva sviluppato nei suoi anni da capo allenatore alla Kansas State University.

Il Bayern di Guardiola si era fermato due volte alle porte della finale di Champions League contro la futura vincitrice: prima il Real Madrid, poi il Barcellona. Ma la squadra del 2016 sembra aver apparecchiato tutto per il meglio: dominato il campionato senza troppi problemi, in Europa può approfittare di un vuoto di potere, le big del calcio spagnolo che hanno vinto nel biennio precedente non sono squadre migliori di quel Bayern.

Tre stagioni e sette titoli per Guardiola al Bayern Monaco: tre Bundesliga, due Coppe di Germania, la Supercoppa Europea e il Mondiale per club (Christof Stache/AFP via Getty Images)

L’ultimo ostacolo prima della finale è un’altra spagnola, l’Atlético Madrid, una formazione costruita su principi antitetici rispetto a quella tedesca, con poche individualità eccellenti e un sistema di gioco che al momento del bisogno può tradursi in una difesa a oltranza. Quel Bayern che sembra inarrestabile, probabilmente una delle squadre più forti d’Europa su singola stagione, si schianta sul muro dei colchoneros: 1-0 per l’Atlético all’andata, poi il 2-1 del ritorno fa fuori Guardiola e i suoi. In un articolo su Ecos del Balón – che ha chiuso negli ultimi giorni – Abel Rojas racconta quella doppia sfida come un’impresa eroica da parte degli uomini del Cholo: «L’opera di Pep Guardiola ha spinto l’Atlético fino a un limite sconosciuto: hanno avuto le stesse difficoltà di chi prova a parlare una lingua che non conosce. Una sensazione che la squadra del Cholo probabilmente non proverà fino al futuro incontro con l’allenatore catalano».

L’ultima Samp di Vialli e Mancini, a un passo dall’impossibile (1992)

Stadio Wembley, finale della Coppa dei Campioni 1992. Tempi supplementari, 111 minuti sul cronometro. Il Barcellona ha a disposizione un calcio di punizione a 25 metri – forse meno – dalla porta di Pagliuca. I catalani scelgono una soluzione composita a tre giocatori: tocco, controllo e conclusione di potenza. Con un tiro angolatissimo, e che viaggia a oltre 100 chilometri orari, Koeman riesce a superare il muro doriano, bruciare Pagliuca sul suo palo (forse colpevole di un saltello nella direzione opposta) e decidere una partita in cui la formazione di Boskov era riuscita a incartare una delle squadre più forti di quel periodo.

La Sampdoria che perde in finale contro il Dream Team guidato da Johann Cruijff è una squadra all’ultimo ballo: deve chiudere al meglio un ciclo d’oro che aveva portato tre successi in Coppa Italia (1985, 1988 e 1989), la Coppa delle Coppe (1990, contro l’Anderlecht, primo titolo europeo del club) e soprattutto il primo scudetto della storia (1991). Per coronare il sogno serve il trofeo più prestigioso, la Coppa dei Campioni, l’ultima con quella denominazione.

Alla finale di Wembley, la Samp era arrivata con la consapevolezza che non ci sarebbe stata una seconda occasione: la rosa avrebbe perso alcuni elementi cardine al termine della stagione. Vialli era da tempo un obiettivo della Juventus, il trasferimento era nell’aria, al momento di dare la notizia Boskov disse: «Ero al corrente della trattativa da un po’, anche se la società non mi ha mai detto nulla». L’estate successiva i bianconeri avrebbero reso Vialli il giocatore italiano più caro di sempre: circa 40 miliardi di lire divisi in un pacchetto di quattro giocatori (Serena, Corini, Zanini e Bertarelli) più un conguaglio economico. La partenza di Vialli – che avrebbe rotto uno dei tandem offensivi più iconici nella storia della Serie A, quello con Roberto Macnicini – sarebbe stata accompagnata da quella del brasiliano Toninho Cerezo, che ormai aveva 37 anni e sarebbe tornato in Brasile, e soprattutto dall’addio del tecnico Vujadin Boskov: personaggio carismatico, figura chiave per la costruzione di quella squadra e per la capacità di moltiplicare le qualità dei suoi giocatori.

L’ultima partita giocata da Gianluca Vialli con la maglia della Sampdoria

Il Madrid di Zidane e Ronaldo (2018)

Uno dei giocatori più forti della sua generazione, stella di una squadra composta da atleti eccezionali, tra i migliori nei rispettivi ruoli; e poi un allenatore dalla personalità mistica, che sembra in grado di tenere sempre tutto sotto controllo con la sola imposizione delle mani, o di uno sguardo. Il Real Madrid dell’ultimo ciclo vincente sembra convergere sulla storia dei Chicago Bulls del ‘98. Con la differenza che a Madrid le voci dell’addio di alcuni pezzi importanti della rosa hanno sempre avuto un peso diverso: meno nette e meno palesi di quelle sullo smantellamento voluto da Jerry Krause per lanciare la ricostruzione dei Bulls.

Nell’estate del 2017 già si parlava di un possibile addio di Cristiano Ronaldo, si accavallavano nomi di squadre che avrebbero voluto acquistarlo – Manchester United in testa – e si chiacchierava moltissimo dei problemi con il fisco spagnolo, di come il fuoriclasse di Madeira si sentisse poco protetto dal club. Altre voci di mercato volevano Toni Kroos lontano dal Bernabéu, così come Bale o Isco. E inevitabilmente Zidane: anche Sergio Ramos, capitano della squadra, a un certo punto della stagione disse che il francese avrebbe potuto lasciare il club in caso di vittoria in Champions. Zidane vedeva una squadra visibilmente provata dopo la stagione 2017/17 chiusa con il doblete (Liga più Champions) e un gruppo di giocatori che necessitava di un ricambio generazionale molto profondo. Sono motivazioni che sarebbero state il non detto della stagione dei blancos, fino a quando Zizou non avrebbe annunciato il suo addio: «Il club deve cambiare, con me sarebbe difficile vincere ancora».

A metà novembre il Real era già a 10 punti di distanza dal Barcellona dopo il pareggio nel derby con l’Atlético: a quel punto l’unica opzione possibile era puntare tutte le fiches sulla Champions per un three-peat mai visto prima in epoca moderna. Da quel momento l’epica di una stagione nata nel peggiore dei modi si è arricchita di alcune perle che rimangono nell’immaginario collettivo: la rovesciata di Ronaldo – un gesto tecnico di bellezza superiore, proprio come The Shot di Michael Jordan nel finale di gara 6 – e poi le papere decisive di Karius e la doppietta di Bale in finale, per confezionare un record storico.

Oltre alle tre Champions consecutive, di cui va giustamente molto orgoglioso, Zidane ha vinto anche la Liga, due Supercoppe di Spagna, due Supercoppe Europee e due Mondiali per Club (Genya Savilou/AFP via Getty Images)

L’ultimo ballo di Sir Alex (2013)

Ferguson fa il suo ingresso sul campo del The Hawthorns, casa del West Bromwich, accompagnato dagli applausi di tutto lo stadio. È la sua ultima partita da allenatore, è l’ultima sulla panchina del Manchester United dopo 27 anni. Stavolta è davvero The Last Dance. Giorni prima, quando era stata data l’ufficialità, tutti erano rimasti sorpresi. Una dichiarazione devastante per l’ambiente dei Red Devils: a Manchester vedevano – e vedono – in Sir Alex il re incontrastato, la stella della squadra, l’anima del club; Ferguson è uno e trino, la sua figura è rappresentativa della società stessa come per sineddoche. Rinunciare a lui significa aprire scenari che molti non riescono nemmeno a immaginare, perché quello United, quell’idea di United è stata creata dall’allenatore scozzese in quasi tre decenni.

In realtà l’ipotesi che potesse essere la sua ultima stagione era stata anticipata dal suo amico Dave Whelan, che però non aveva la certezza matematica: a molti era sembrata una battuta come un’altra. Di un possibile addio di Fergie infatti si parlava da così tanto tempo che ormai nessuno faceva più caso. L’unico addio certo era quello di Paul Scholes, tornato in campo dopo un primo ritiro: per lui quella 2012/13 sarebbe stata l’ultima avventura con la maglia del Manchester United.

Gli highlights di WBA-Manchester United, l’ultima partita di Ferguson. No, il punteggio che leggete non è un errore, Ferguson ha chiuso una carriera leggendaria con una partita leggendaria, o almeno dal risultato molto inusuale

Quella stagione era stata interpretata dal manager scozzese come una missione. Dopo essersi visto sfilare il titolo di campione d’Inghilterra dai rivali cittadini del City, letteralmente all’ultimo secondo dell’ultima partita, Ferguson aveva deciso di non potersi fermare, e di doversi rifare con gli interessi: non avrebbe accettato un’ultima stagione che non fosse una stagione vincente. Sul mercato era andato a prendersi l’attaccante migliore del campionato, Robin van Persie, e aveva ricalibrato il sistema per valorizzarlo. Lo score dell’olandese a fine campionato sarà di 38 partite disputate e 26 gol segnati.

All’ultimo ballo di Ferguson, lo United distrugge ogni idea di concorrenza in campionato, chiudendo con 11 punti di vantaggio sul City e regalando al suo manager la 13esima vittoria in Premier League della carriera – 20esima nella storia del club. Al fischio finale della gara di West Bromwich, il Manchester si separa dalla sua guida spirituale e terrena, così come i Bulls si quindici anni prima avevano lasciato andare il loro Zen Master, coach Phil Jackson. A sette anni di distanza da quell’addio lo United non ha creato molte altre storie degne di un racconto epico, è rimasto fermo nel punto in cui l’aveva lasciato Ferguson. Proprio come i Chicago Bulls degli ultimi vent’anni.