Milan-Juventus del 2003 è stata il canto del cigno del calcio italiano

Non c'erano mai state due finaliste italiane in Champions, e non ci sarebbero state dopo: apice di un movimento che era già in declino, che non teneva più il passo delle realtà straniere.

Quando il 28 maggio del 2003, diciassette anni fa, Paolo Maldini alzò al cielo di Manchester il trofeo della Uefa Champions League,  il calcio italiano stava vivendo il suo momento di massima autocelebrazione. I rossoneri avevano battuto in finale la Juventus dopo aver eliminato l’Inter in semifinale, un exploit del genere era riuscito solo ai club della Liga spagnola nell’edizione 1999/2000 – allora il Real Madrid vinse la finale di Parigi contro il Valencia, che a sua volta aveva eliminato il Barcellona nel turno precedente. Insomma, l’ultimo atto tutto italiano fu un evento storico, quindi non è eccessivo scrivere che i narratori del calcio italiano fecero una scelta comprensibile quando sfruttarono questo successo per prendersi delle rivincite sul mondo intero. Sulla Gazzetta dello Sport del 15 maggio 2013, all’indomani della semifinale di ritorno tra Juventus e Real Madrid (3-1 per i bianconeri), Candido Cannavò scrisse: «Gli altri paesi europei, Spagna in testa, hanno deriso gli italiani per mesi e mesi, al di là di ogni ragionevole critica, come se qualche Mosè avesse consegnato a loro e soltanto a loro le tavole del pallone. E adesso li vediamo uscire dal campo in ginocchio, storditi dalla durissima lezione incassata in quella che loro avevano definito la patria dei trogloditi del calcio».

Queste e altre parole pregne di trionfalismo celebrarono un successo che sembrava essere sistemico, considerando anche il percorso fatto dall’Inter. Inoltre, sotto la cenere dei media bruciava pure un enorme desiderio di rivalsa: pochi mesi prima, la Nazionale di Trapattoni era uscita male dal Mondiale nippocoreano – a cui era arrivata da favorita, tra l’altro con una squadra fortissima – e allora molti giornalisti stranieri avevano criticato il gioco degli Azzurri, definendolo antiquato e poco divertente. Insomma, la finale di Manchester ci è stata raccontata, ci è stata venduta, in un certo modo, e perciò la ricordiamo come un ritorno alla normalità, come l’inevitabile affermazione della superiorità della Serie A e del calcio italiano sul mondo intero, una superiorità tattica, finanziaria, culturale che era evidente e che perciò era destinata a non finire mai. In realtà si trattava di un’illusione: quella superiorità era finita da un po’, o quantomeno era molto meno marcata rispetto al passato.

Basta consultare gli almanacchi per rendersi conto dell’errore distorsivo che fu commesso allora, e dell’errore distorsivo che commettiamo ancora oggi quando consideriamo quella finale come l’apoteosi del dominio italiano sulle coppe europee: prima della stagione 2002/2003, infatti, una squadra di Serie A non vinceva la Champions League dal 1996 e non raggiungeva la semifinale dal 1999; in Coppa Uefa, i club italiani misero insieme due apparizioni in semifinale tra il 2000 e il 2002. Il dominio del decennio precedente – dal 1990 al 1999 le squadre di Serie A vinsero tredici trofei europei sui trenta messi in palio dalla Uefa, e in più giocarono altre 12 finali – si era attenuato per diverse motivazioni. Quello del 2003, in pratica, fu l’ultimo colpo di reni, il meraviglioso canto del cigno di un modello di business sportivo destinato a diventare obsoleto, che stava già mostrando le prime crepe, i primi ritardi, rispetto alle strategie tecniche ed economiche attuate dai club di altre nazioni.

John Foot ha una cattedra di storia italiana all’Università di Bristol e ha scritto il libro Calcio: A History of Italian Football, un’analisi secolare del rapporto tra calcio, cultura e politica nel nostro Paese. In una recente intervista rilasciata a Jacobin, ha spiegato come «la Serie A tendeva a dominare il mondo quando l’Italia aveva un’economia forte: negli anni Sessanta, ai tempi del boom economico, e poi negli anni Ottanta, grazie all’arrivo di un personaggio influente e unico nella politica, nella comunicazione, nella cultura di massa: Silvio Berlusconi». I conti incrociati tra nomi, date e albi d’oro tornano perfettamente: nella seconda metà degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, il Milan stravolse completamente il calcio italiano ed europeo, l’enorme iniezione di liquidi portata da Berlusconi determinò un approccio aggressivo al calciomercato e stimolò gli investimenti anche degli altri club, che beneficiarono anche degli stadi ristrutturati per i Mondiali del 1990 e poi dell’arrivo delle pay-tv. I migliori giocatori di tutti i Paesi accettavano di trasferirsi in Serie A, attratti dagli stipendi più alti e dalla lega più competitiva del mondo, il modello del presidente-imprenditore funzionava – almeno per quanto riguarda i risultati sul campo – e tutto sembrava destinato a cristallizzarsi in questo modo.

Lo scenario iniziò a cambiare quando la nuova Premier League, fondata nel 1992, riuscì a creare una struttura mediatica e finanziaria più attrattiva per sponsor e investitori: i club britannici, seguiti poi da quelli spagnoli, iniziarono a differenziare i ricavi, ad andare oltre i diritti tv, a curare molto di più gli aspetti commerciali, così alla fine degli anni Novanta il gap economico con la Serie A era già stato colmato. Il sorpasso definitivo avvenne all’inizio del nuovo millennio: se nel 2001 c’erano cinque club di Serie A nei primi dieci posti della Deloitte Football Money League, già nel 2003 erano sopravvissute solo Milan, Inter e Juventus, insieme alle due grandi di Spagna, al Bayern Monaco e a cinque società inglesi – Manchester United, Arsenal, Liverpool, Chelsea e Newcastle.

La vittoria in finale a Manchester nel 2003 consegnò al Milan la sesta affermazione nella massima competizione europea dopo quelle del 1963, 1969, 1989, 1990 e 1994 (Adrian Dennis/AFP via Getty Images)

Quando Milan, Inter e Juventus si giocarono le semifinali di Champions gli equilibri erano già mutati, anche sul mercato: nel 2001, Zidane scelse di lasciare la Juve e la Serie A per trasferirsi al Real Madrid, lo stesso percorso compiuto un anno dopo dall’interista Ronaldo; dopo la diaspora degli anni Novanta che coinvolse i vari Vialli, Zola, Asprilla, Di Matteo e Ravanelli, tra il 2001 e il 2003 anche Verón, Crespo e Mutu decisero di accettare le offerte in arrivo dall’Inghilterra. Nel frattempo, il sistema economico italiano cominciava a risultare tra i più fragili dell’area-Euro, a causa del debito pubblico sproporzionato, di politiche finanziarie pensate e attuate per anni senza rivolgere lo sguardo al futuro.

I risultati sul campo di questo nuovo scenario economico si sarebbero manifestati compiutamente solo negli anni seguenti, nei nostri anni, secondo la tabella ritardata che scandisce il tempo nel mondo del calcio, dello sport, degli investimenti in generale. Nel 2002/2003, infatti, il Milan, la Juventus e l’Inter erano ancora delle squadre molto forti, ricche di campioni italiani e stranieri in grado di tenere testa a qualsiasi avversario. Le tre società più ricche e blasonate della Serie A si stavano ancora giovando delle condizioni favorevoli e delle somme spese negli anni Novanta, e grazie a progetti tecnici abbastanza coerenti avviati negli anni precedenti – Ancelotti, Lippi e Cúper si erano seduti sulle loro rispettive panchine a cavalo tra l’estate e l’autunno del 2001 – riuscirono a esprimersi al meglio, soprattutto riuscirono a battere le migliori squadre del continente: il Milan superò nei gironi il Bayern Monaco, il Borussia Dortmund e il Real Madrid dei Galacticós; la Juventus eliminò il Deportivo La Coruna nei gironi e il Barcellona ai quarti, prima del Real Madrid; l’Inter ebbe la meglio sul Bayer Leverkusen – finalista nel 2002 – e sul Valencia di Rafa Benítez.

Marcelo Zalayeta realizzò il gol che permise alla Juventus di superare il Barcellona nei quarti di finale: i bianconeri vinsero al Camp Nou durante i supplementari, l’attaccante uruguaiano realizzò la rete decisiva al 114esimo minuto (Alex Livesey/Getty Images)

La finale di Manchester, al di là dei toni epici con cui venne presentata, fu giocata in tono minore da due squadre che avevano già dato il meglio durante le fasi precedenti del torneo: l’assenza di Nedved resta ancora oggi uno dei grandi what if nella storia della Juventus, ma il Milan di Ancelotti meritò di vincere quella partita, perché aveva mostrato il miglior calcio di tutta la manifestazione – soprattutto nelle partite dei gironi – e perché aveva un gruppo di enorme qualità destinato ad aprire un ciclo di grandi successi, che si sarebbe chiuso solo molti anni dopo – e che non a caso arrivò a disputare altre due finali di Champions.

I giocatori più forti di quelle squadre – Pirlo, Gattuso, Nesta, Buffon, Del Piero, Zambrotta, ma anche Cannavaro e Materazzi dell’Inter – sarebbero stati i protagonisti del trionfo al Mondiale 2006: anche quello non fu un successo sistemico, piuttosto la dimostrazione del fatto che un modello di business – come quello messo a punto dalla Serie A negli anni Novanta – possa portare effettivamente a una competitività diffusa, allo sviluppo di una generazione di giocatori fortissimi, a grandi risultati che si dilatano nel tempo. Il problema è che il calcio italiano è rimasto per molto tempo fermo a quegli anni mentre gli altri mettevano a punto delle strategie più innovative; i dirigenti di Serie A non sono stati in grado di comprendere i segnali che arrivavano dal mondo intorno a loro, non hanno saputo rinnovarsi e ora gran parte del movimento sta ancora pagando questo ritardo rispetto ad altre realtà che oggi risultano molto più moderne, semplicemente perché avevano già iniziato a pensare al futuro, a programmarlo, a viverlo, mentre i club italiani vincevano e credevano che avrebbero vinto per sempre.