Gattuso può restituire al Napoli lo status di big?

La finale di Coppa Italia contro la Juventus è un primo passo per rispondere a questa domanda.

Il Napoli che ha raggiunto la finale di Coppa Italia è una squadra che ha vissuto molte vite, distribuite nel corso degli anni: il gruppo storico – Koulibaly, Ghoulam, Callejón, Mertens e Insigne, più Allan e Hysaj – si è formato tra il 2013 e il 2015, a cavallo tra l’era-Benítez e l’inizio dell’era-Sarri, e ancora oggi è una parte fondamentale della rosa; col tempo, poi, si sono aggiunti altri elementi importanti come Zielinski, Maksimovic, Mario Rui, Fabián Ruíz, Meret e Ospina. Il passaggio da Sarri e Ancelotti non era andato malissimo, almeno inizialmente, poi però il progetto è crollato e si è consumato l’inatteso ribaltone in panchina. Con l’arrivo di Gattuso lo scenario è cambiato, di nuovo, e non solo dal punto di vista tattico. Proprio per questo, al netto del contesto surreale in cui è stata raggiunta, la qualificazione alla finale di Coppa Italia è un evento importante per il Napoli. In qualche modo, certifica l’esistenza in vita, o meglio la resistenza al tempo di un gruppo di alto livello, che nonostante si fosse smarrito è riuscito a ritrovarsi, e ora si gioca un trofeo contro la Juventus. Una piccola impresa, considerando anche il valore degli avversari eliminati dagli azzurri per raggiungere la finale – la Lazio e l’Inter.

Proprio i due successi contro le squadre che inseguono la Juventus nella classifica di Serie A hanno detto un po’ di cose sul Napoli. La prima riguarda la sproporzione tra i risultati stagionali degli azzurri, soprattutto in campionato, e il reale valore della rosa: è lampante che il logoramento dei rapporti triangolari tra la società, Ancelotti e i giocatori abbia condizionato il rendimento in campo fino a dicembre, cioè fino all’esonero dell’allenatore emiliano. La seconda evidenza riguarda l’impatto di Gattuso, il modo in cui l’ex tecnico del Milan ha rivitalizzato la squadra: l’idea iniziale di De Laurentiis, del suo entourage e dello stesso Gattuso era quella di ripristinare un certo tipo di gioco e un certo sistema di gioco, in modo da soddisfare le richieste della rosa – almeno sul campo, mentre fuori infuriavano la battaglia sulle multe, comminate dal club per l’ammutinamento di dicembre, e quella sui rinnovi dei contratti in scadenza.

Questa restaurazione, in realtà, non è avvenuta. O meglio: è avvenuta solo in parte, fino a un certo punto. Gattuso ha effettivamente imposto il 4-3-3 richiesto dalla società e dai giocatori più influenti dell’organico, e a sua volta ha convito De Laurentiis e Giuntoli ad acquistare due centrocampisti (Demme e Lobotka) e un esterno offensivo (Politano) potenzialmente perfetti per utilizzare questo modulo. Dopo un inizio molto ambizioso, però, l’ex allenatore del Milan ha capito che la sua nuova squadra, almeno in questo momento, non possiede i giocatori e gli strumenti – fisici e mentali – per praticare un calcio dominante, per tenere una difesa alta e aggressiva, per gestire i ritmi di gioco attraverso il possesso palla, insomma per cercare di riprodurre almeno in parte i concetti che hanno caratterizzato il triennio di Sarri. In realtà anche Ancelotti aveva capito che al Napoli serviva altro, dal punto di vista tattico e forse anche culturale, ma ha scelto una strada evidentemente sbagliata – lo dicono i risultati, l’ha detto il comportamento dei giocatori del Napoli e l’ha detto lo stesso De Laurentiis, che proprio l’altro ieri, in un’intervista al Corriere dello Sport, ha raccontato che «Ancelotti non era fatto per il tipo di calcio che vogliono a Napoli» e che «se le cose andranno bene potrei offrire a Gattuso un rinnovo di tre-quattro anni».

Gattuso, come tutti gli allenatori, ha dovuto fare dei compromessi, ha dovuto adattare le sue idee a ciò che ha trovato intorno a sé. Ne è venuta fuori una squadra che dà il meglio di sé contro avversari di buona qualità, in quelle partite in cui può decidere di non esercitare il dominio del campo, o quantomeno di non farlo per tutti i novanta minuti: dal 21 gennaio in poi, quando ha perso 0-1 in casa della Lazio, il Napoli ha iniziato a giocare in maniera più accorta, più compatta, e così ha battuto la Juventus, la Lazio in Coppa Italia, l’Inter a San Siro e poi Sampdoria, Cagliari, Brescia e Torino; sono arrivati anche due pareggi importanti al San Paolo, quello contro il Barcellona in Champions League – al termine di una partita in cui gli azulgrana hanno avuto pochissime occasioni da gol – e quello con l’Inter che è valso il passaggio alla finale di Coppa Italia. L’unica sconfitta nelle ultime dieci partite è arrivata in casa contro il Lecce.

Certo, non tutte queste gare hanno avuto lo stesso andamento, il Napoli ha ricominciato a fare punti pure contro squadre di livello inferiore, ma è proprio in occasione di queste vittorie che si è manifestato il trend, cioè che gli uomini di Gattuso hanno mostrato maggiori difficoltà: oltre il 2-3 contro il Lecce, gli azzurri sono andati sotto di un gol a Brescia prima di rimontare, si sono fatti recuperare due reti dalla Sampdoria prima di tornare di nuovo in vantaggio, e con il Torino hanno chiuso la pratica solo a dieci minuti dalla fine.

Dries Mertens ha un rapporto speciale con la Champions League: dal 2016 a oggi, ha segnato contro Benfica, Real Madrid, Liverpool, Paris Saint-Germain e Barcellona (Michael Steele/Getty Images)

Guardando le partite del Napoli, è evidente come la squadra di Gattuso non riesca a essere intensa senza perdere equilibrio tattico. Anche il pareggio casalingo contro l’Inter ha dato questa sensazione: rispetto alla gara d’andata a San Siro, gli azzurri hanno cercato di essere più aggressivi, di alzare la linea del pressing. I risultati sono stati scadenti: dieci tiri concessi all’Inter nei primi 45′ di gioco, di cui cinque nello specchio della porta di Ospina. Le cose sono migliorate nella ripresa, quando Gattuso ha abbassato di nuovo il baricentro della sua squadra, e così ha portato a casa la qualificazione alla finale. I segnali e le evidenze del campo hanno indirizzato il lavoro di Gattuso, un allenatore sistemico ma non visionario, quindi concettualmente elastico: oggi il suo Napoli è una squadra che ha assecondato il suo stesso contesto, che probabilmente non appartiene ancora del tutto al suo allenatore, e forse non somiglia al Napoli che De Laurentiis aveva in mente, ma che ha trovato una sua quadratura.

Questo miglioramento va ricondotto a una questione di leadership, o meglio di tipo di leadership, oltreché di tattica collettiva e individuale: le idee calcistiche e di gestione del gruppo di Ancelotti non hanno attecchito a Napoli e nel Napoli. Gattuso ha avuto un approccio differente, come detto ha saputo adattarsi alla situazione meglio del suo predecessore, forse ha toccato le corde – emotive, comunicative – giuste con i giocatori e l’ambiente, e allora il Napoli ha ripreso a girare, almeno in parte, e a essere apprezzato dai suoi stessi giocatori, dalla dirigenza, forse anche da quella fetta (maggioritaria) di pubblico che si era identificato in maniera viscerale con Sarri, e che ha fatto molta fatica ad accettare il suo addio. Ma il club partenopeo resta un’impresa sportiva che ha bisogno di una nuova programmazione, di un progetto per il futuro che non potrà essere basato solo sulla retorica dell’uomo-guida, piuttosto su una visione – tecnica, tattica, economica – concordata, su un piano che metta d’accordo le strategie e le possibilità della società con le idee dell’allenatore e la disponibilità dei giocatori.

Callejón è uno dei giocatori in scadenza di contratto nella rosa del Napoli; finora, in sei stagioni e mezza nella squadra partenopea, ha accumulato 337 presenze in competizioni ufficiali, con 80 gol realizzati (Francesco Pecoraro/Getty Images)

La sensazione è che Gattuso, fino a questo momento, abbia fatto tutto ciò che poteva, anzi il meglio che poteva, con il materiale a disposizione. L’incoerenza del progetto-Napoli in questo momento storico, a cavallo di ciò che era con Sarri e di ciò che poteva essere – e non è stato – con Ancelotti rende ancora ibrida la squadra azzurra; la situazione è stata temporaneamente risolta mettendo alcune toppe, tattiche ed emotive, ma per la nuova stagione servirà fare chiarezza, in tutti i sensi. Finora l’errore è stato trascinare stancamente un ciclo storico e tanti, troppi giocatori in un futuro che non poteva appartenergli, ora bisognerà prendere delle decisioni nette: senza la pandemia l’addio di tanti big sarebbe stato praticamente inevitabile, ora il mercato rallentato potrebbe portare a un’occasione inattesa, a una posizione di vantaggio nelle trattative – il Napoli ha una solidità finanziaria unica per la Serie A, praticamente non ha bisogno di vendere – che potrebbe trattenere ancora in azzurro Koulibaly, Fabián Ruiz e altri elementi di una rosa che resta molto forte.

A quel punto, servirà che la società scelga i rapporti da ricucire veramente e quelli da terminare, che lo faccia su indicazione di Gattuso. Nel frattempo l’allenatore deve decidere cosa e come deve essere il suo Napoli, che non vuol dire per forza una squadra offensiva e dominante, piuttosto un gruppo che remi tutto nella stessa direzione, che abbia una sua identità, che segua ed esegua una filosofia chiara e definitiva, dal punto di vista tattico e della composizione della rosa. Insomma, Gattuso deve mettere fine a un’era di transizione statica che va avanti da troppo tempo, deve certificare l’esistenza del Napoli di Gattuso, un nuovo brand. Al quale una vittoria in Coppa Italia darebbe subito un impulso di forza, prestigio, fiducia, per la stagione che verrà.