Quattro giocatori che avremmo voluto vedere in Serie A

Alcuni tra i più grandi campioni che non hanno mai sperimentato un'esperienza in Italia.

Ricordiamo gli anni Ottanta-Novanta come il periodo d’oro del calcio italiano, e non ci sono dubbi in merito: il “boom” economico che travolse l’intero sistema, stadi pieni e che ci sembravano ancora moderni ed evoluti, successi internazionali a ripetizione, quindi l’avvento delle pay tv e un’attenzione mediatica proveniente da ogni parte d’Europa. Soprattutto, a sottolineare tutto questo c’era una costante e affascinante concentrazione di campioni – come se la Serie A fosse diventato un All-Star Game in piena regola, ma dilatato per trentaquattro giornate.

A ben vedere, però, anche successivamente i calciatori di primissima fascia hanno continuato a sbarcare nel nostro campionato: non tutti, certamente, non Messi, purtroppo, e comunque con alcune differenze sostanziali rispetto a quanto accadeva trenta, quarant’anni fa. Sempre più spesso i campioni scelgono la Serie A o come terreno in cui affermarsi – prima del grande salto in una realtà all’estero – o come “buen retiro”, come appendice finale della propria carriera. Inoltre, se negli anni Novanta le squadre in grado di attrarre grandi giocatori erano sette-otto, con nomi roboanti che spesso finivano pure in squadre provinciali, oggi quel numero si è drasticamente ridotto, con una risicata manciata di club che esercitano ancora un fascino sui giocatori stranieri.

Ad ogni modo, la Serie A ha continuato a fare incetta di grandi nomi, anche se magari in Italia sono arrivate solo le loro controfigure. Ma sono pochi i campioni che non hanno mai provato l’avventura italiana: generalmente si tratta di calciatori che hanno fatto vere e proprie scelte di vita, legandosi per tutta la loro carriera, o quasi, a una singola squadra. Abbiamo scelto quattro nomi che ci sarebbe piaciuto vedere in Serie A, magari in un determinato periodo storico, magari in una certa squadra.

Roy Keane

I video che raccolgono i singoli tocchi, uno a uno, nell’arco di novanta minuti di un calciatore protagonista di una gara indimenticabile sono ormai diventati un genere a sé. Questi video riguardano i calciatori di maggior talento, quasi sempre trequartisti/attaccanti. Cosa dovrebbe raccontare, per esempio, un video di questo tipo con Roy Keane come protagonista? Invece esiste – lo ha fatto il Manchester United per celebrare la vittoria per 3-2 contro la Juventus, nella semifinale di Champions del 1999 – e invece racconta qualcosa, racconta, appunto, che Roy Keane fu l’uomo che fece partire la rimonta dei Red Devils, sotto di due due gol dopo undici minuti, racconta l’agonismo di un uomo che fece spallucce quando si beccò un giallo per fallo su Zidane, dovendo così rinunciare alla finale di Barcellona, racconta quanto Roy Keane sarebbe stato un giocatore perfetto per la turbinosa Serie A degli anni Novanta.

Proprio la Juventus, la squadra a cui riservò un grosso dispiacere in quella notte del 1999, fu molto vicino ad acquistarlo. «Avrei potuto firmare per la Juventus o il Bayern Monaco: avevo ricevuto offerte economiche migliori, ma volevo rimanere allo United. A Old Trafford mi sentivo a casa», ha ricordato Keane, che nel 2000, con il contratto in scadenza, fu vicino all’addio. In un contesto tecnico come quello della Juventus che faceva della ferocia, tra difesa e centrocampo, il suo marchio di fabbrica, con giocatori come Montero, Davids, Conte, Keane sarebbe entrato pienamente in sintonia. Se non altro per rispondere alla domanda: con la diversità di metro arbitrale tra Inghilterra e Italia, sarebbe stato il calciatore più espulso nella storia della Serie A?

Raúl

«Non ho mai capito cosa significasse il termine Galacticos. Non mi piacciono i Galacticos. Io amo il calcio e i Galacticos non sono calcio, sono un’altra cosa». Una frase di questo tipo l’avrebbe potuta dire chiunque del mondo del calcio, tranne il capitano dei Galacticos. Invece, fu proprio Raúl a pronunciarla nel 2015 in un’intervista con So Foot, Che ci fosse un pizzico di risentimento è comprensibile: Raúl passò dall’essere il giocatore di punta del Real Madrid a un comprimario, schiacciato dal peso mediatico dei vari Ronaldo, Beckham, Zidane, Figo, Owen. Negli anni di maggior confusione tecnica, dovuta proprio al fatto che le strategie di marketing avevano soppiantato le ragioni più squisitamente tattiche, il Real rimase digiuno di trofei – dal 2003 al 2006 solo una Supercoppa nazionale – e Raúl visse le stagioni peggiori in carriera, con il 2005/06 punto più basso (appena sette gol stagionali).

Lasciare il Real Madrid, nella testa di Raúl, non fu mai una possibilità (più tardi avrebbe confessato che gli sarebbe piaciuto concludere la carriera al Bernabéu), ma nel cammino accidentato che lo vide trascinarsi, senza riuscire più ad accendere il suo talento, avrebbe potuto cambiare traiettoria e, chissà, ritornare di attualità (nel 2001 era arrivato secondo nella corsa al Pallone d’Oro). Dalla Liga alla Serie A il passo sarebbe stato quasi scontato: avrebbe potuto fare il percorso inverso di Ronaldo, che nell’estate del 2002 passò dall’Inter al Real. Ecco: magari lo spagnolo avrebbe avuto la grande chance di riscattare quello che il brasiliano aveva fallito, in una squadra che, ferita, lo avrebbe inevitabilmente accolto come un salvatore. Non solo: avremmo visto nel nostro campionato lo scontro diretto con Pippo Inzaghi, a cavallo degli anni Novanta e Duemila i grandi rivali per lo scettro di recordman di gol in Champions League.

Xavi

Tra Xavi e il Milan, a quanto pare, si mise di mezzo la madre dello spagnolo: «Aveva 19 anni e aveva appena vinto il Mondiale Under 20. Galliani lo aveva seguito in Nigeria, dove aveva fatto un torneo straordinario. Ci offrivano una villa e 250 milioni di pesetas per 5 stagioni. Viaggi pagati, un lavoro per mio marito. Analizzammo la cosa in famiglia: tutti volevano approfittare di questa opportunità, anche perché vedevano complicata la sua progressione nel Barça visto che davanti aveva Guardiola. Io dissi: “Se se ne va, divorzio”. La decisione finale comunque la prese lui».

Poche squadre sarebbero andate a pennello per Xavi come il Milan – perché in rossonero avrebbe trovato giocatori come Pirlo, Seedorf, Kaká con cui esaltarsi, certo, ma anche perché stiamo parlando di un terreno tecnico potenzialmente fertile per le sue qualità. Xavi è sempre stato un punto di riferimento per il Barcellona, ma non è proditorio sottolineare come l’esaltazione del suo gioco sia arrivata con Guardiola, all’interno di uno spartito tattico che lo ha assurto tra i migliori centrocampisti della sua era. Chissà cosa sarebbe successo nel Milan degli anni Duemila, una delle squadre più zeppe di talento d’Europa, come un centrocampo già perfetto di suo avrebbe assorbito i passi silenziosi e determinanti dello spagnolo, come gli spietati frontman offensivi avrebbero beneficiato delle sue soluzioni brillanti. Uno scenario che avrebbe risolto anche un equivoco storico, visto che i centrocampisti spagnoli – abituati a tutt’altro tipo di calcio – in Italia avevano fallito: Mendieta, Farinós, De La Peña. Xavi al Milan difficilmente non sarebbe sbocciato – a meno di non accordargli tempo: ma questo è un problema cronico, che trascende le nazionalità – e avrebbe sottolineato come, anche in Italia, giocare in un modo paradisiaco è cosa buona e giusta (oltre che possibile).

Arjen Robben

Qualche giorno fa, Arjen Robben è ricomparso al centro d’allenamento del Bayern Monaco. Non solo per una carrambata tra vecchi compagni, ma per una vera sessione di allenamento con lo storico preparatore Holger Broich. L’olandese ha escluso un ritorno al Bayern Monaco, ma ha lasciato una porta aperta a un clamoroso ritorno in campo (dopo il ritiro di un anno fa). A quante squadre italiane farebbe comodo un Arjen Robben oggi? La risposta la sappiamo già. E dieci anni fa? Prima di arrivare in Germania, dove Robben ha trovato la squadra ideale per mettere a frutto il suo potenziale, l’olandese rischiava di essere marchiato con l’aggettivo peggiore quando si parla di calcio: “incompiuto”. Una parola peggiore di “incapace” o “inadatto” o “bidone”: perché “incompiuto” presuppone che uno le qualità le abbia, ma che siano andate perse. Al Chelsea e al Real Madrid, in effetti, l’impressione su Robben era molto vicina a quel concetto (anche se in Inghilterra furono più gli infortuni che gli avversari a fermarlo). Come avremmo giudicato la carriera di Robben senza il Bayern?

Con i bavaresi, Robben ha riscosso affermazione personale e valanghe di trofei. Soprattutto, un progetto tecnico calzato su misura che ha fatto deflagrare la sua bravura. Avrebbe potuto trovarlo anche in Italia, magari in una squadra con prestigio minore ma con ambizioni in fase di costruzione: come il Napoli. In questi dieci anni, il club azzurro si è dimostrato maestro nel trasformare buoni giocatori in grandi giocatori – Cavani, Lavezzi, Mertens, Koulibaly – oppure nel restituire a ottimi calciatori la propria dimensione, come nel caso di Higuaín. Se Robben avesse fatto lo stesso percorso del Pipita avremmo ammirato in Serie A un’ala vecchio stampo: potente, ammaliatrice, inarrestabile. Avrebbe innalzato il suo di livello ma anche quello di tutta la squadra – e quante perle ci avrebbe lasciato in eredità.