Quale futuro aspetta il Milan?

Da anni, ormai, la squadra rossonera rivive sempre la stessa stagione, senza che succeda mai nulla di nuovo, o di rilevante, sul versante dei risultati. Fino a quando si protrarrà questa incertezza?

Il 7 maggio 2011, mentre in Piazza Duomo guardavo i miei colleghi di tifo scalare l’incolpevole Montagna di Sale di Mimmo Paladino, un dato mi aveva improvvisamente sconvolto: il Milan era appena tornato a vincere lo scudetto dopo sette lunghissimi anni, un lasso di tempo che allora mi sembrava enorme. Oggi, se penso che da quel giorno ne sono passati già nove, la cosa mi fa molto meno effetto: invecchiando, la percezione dello scorrere del tempo cambia e il 2011 non sembra poi così lontano, o forse semplicemente le mie aspettative sul Milan si sono drasticamente ridotte.

Non pretendo che il Milan vinca qualche trofeo. Non mi aspetto nemmeno che vinca la singola partita. Ho imparato ad apprezzare le piccole cose: un gol a favore, per esempio, un evento ormai raro per una squadra che, pur puntando sui giovani, non ha nulla della spensieratezza, dell’irriverenza che ci si potrebbe aspettare, e che magari ha anche una rosa più forte rispetto ad altre edizioni degli ultimi anni, ma resta probabilmente la meno emozionante di sempre. Il reparto d’attacco rossonero è tra i più sterili d’Europa, il quarto peggiore della Serie A, per numero di gol segnati, al momento dell’interruzione del campionato. Ora, dopo i quattro gol segnati al Lecce, ci sono sei squadre che hanno fatto peggio dei rossoneri, Ma non è che la sostanza cambi di molto.

In caso di sconfitta, a meno di eventi impronosticabili come un 5-0 dall’Atalanta o un derby perso facendosi rimontare due gol di vantaggio, non ci resto nemmeno troppo male. Dormo lo stesso. È andata così. Sarà per un’altra volta. Non è successo nulla di irreparabile, la squadra non è retrocessa, la società non è fallita e non ha nemmeno dovuto vendere Milanello tra le lacrime dei tifosi. Si è solo limitata a scivolare lentamente verso l’apatia, è diventata un posto dove non accade mai niente di esaltante o di traumatico, dove non succede sostanzialmente nulla, almeno entro i confini del campo, e le cose si ripetono, uguali a se stesse, anno dopo anno, un’eterna domenica pomeriggio con l’allenatore di turno a ripetere che solo con il lavoro se ne potrà uscire. Forse è proprio questo a spaventare Victor Font, candidato alle prossime elezioni presidenziali del Barcellona, che da un paio d’anni non perde occasione, nelle interviste e negli incontri con i tifosi blaugrana, per indicare un pericolo imminente: «Siamo a rischio di diventare il Milan».

Anche questa stagione è iniziata con i soliti, timidi entusiasmi estivi. Da subito ho provato una sorta di apprensione per Marco Giampaolo, un buon allenatore che avrebbe potuto proseguire felice in squadre di livello medio e il cui esonero è stato soltanto il primo di tanti passaggi inevitabili: dopo una serie di partite finite male, ognuna delle quali definita “la prestazione più incoraggiante fino a questo momento”, qualcuno a novembre ha fatto notare la pericolosa vicinanza alla zona retrocessione, prima che arrivasse l’ormai tradizionale, rassicurante striscia invernale di risultati mediamente positivi. Nemmeno la Coppa Italia ha regalato sorprese: come accaduto già tre volte nei quattro anni precedenti, il Milan è andato avanti fino a quando ha incontrato la Juventus e a quel punto si è fatto da parte, in un’atmosfera di rassegnazione generale, senza che gli avversari dovessero impegnarsi particolarmente. Almeno questa volta mi è stata risparmiata la visione di un Massimo Giletti esultante sul prato dell’Olimpico. Non mi lamento.

La mediocrità non mi spaventa, non spaventa più nessuno: per quanto possa sembrare strano, San Siro è infatti raramente stato tanto affollato, negli ultimi dieci anni, come di questi tempi: i 32mila abbonati di questa stagione sono più numerosi di quelli che hanno assistito dal vivo all’ultimo scudetto del Milan, nel lontano 2011, e anche la media degli spettatori presenti, fino all’irruzione del Covid-19, è tornata su quei livelli, con un dato che supera quota 54mila, forse sull’onda della qualificazione alla Champions League sfiorata con Gattuso. Vale la pena esserci: non posso raccontare di aver assistito a una sconfitta interna con la Cavese, ma nessuno mi toglierà mai il ricordo, né triste né felice, di un pareggio contro un Verona in inferiorità numerica, del primo gol di Calhanoglu su calcio di punizione.

Le prestazioni di Theo Hernández sono una delle poche note positive della stagione rossonera, ma sono anche un campanello d’allarme: il fatto che un terzino abbia segnato sei reti, e che questo risulti essere il secondo miglior dato realizzativo della rosa, non è proprio una buona notizia (Marco Luzzani/Getty Images)

In fondo uno ci spera sempre, anche se non ci crede. Un anno e mezzo fa, quando è stato accolto come il marziano a Milano, il manager con laurea a Oxford pronto a rinegoziare al rialzo accordi di sponsorizzazione, ancora prima di sedersi a una scrivania, con la sola forza del suo nome, non ero particolarmente entusiasta di Ivan Gazidis. L’uomo non si è mai aiutato: sentendolo proclamare come Elliott avesse salvato il club dalla Serie D, non esattamente il modo migliore per farsi nuovi amici, mi è sembrato di tornare ai tempi di Berlusconi e Galliani e del periodico reminder sul Milan “preso in tribunale”. Quando poi l’amministratore delegato sudafricano si è ritrovato attaccato da personaggi del calibro di Flavio Briatore, Christian Vieri, Yonghong Li, Attilio Fontana, Gianluca Galliani e Silvio Berlusconi, ho deciso istintivamente di rivalutarlo in qualche modo, di cercare informazioni rassicuranti su Internet per convincermi che il futuro era roseo.

Non è facile: qualche tifoso dell’Arsenal è disposto a riconoscergli la qualifica di brava persona, da qualche parte si ammette che abbia in qualche modo aumentato i ricavi e rinnovato le strutture societarie, ma le promesse di portare il club ai livelli del Bayern Monaco sono invecchiate male. E non è andata meglio agli articoli sulla sua pluriennale e machiavellica strategia, culminata nella decisione più importante della sua vita da dirigente sportivo, quella destinata a definirne la carriera: la scelta di sostituire Wenger con Unai Emery, già esonerato e dimenticato.

Nella sua seconda avventura al Milan, Zlatan Ibrahimovic ha segnato quattro gol in 810 minuti di gioco (Marco Bertorello/AFP via Getty Images)

Per un uomo poco abituato a fare notizia, a parlare solo per dire che non servono acquisti costosi, parco nel concedere interviste, abituato ad agire in maniera più che discreta, tanto da rendere a tratti misterioso il suo lavoro, e ad avere in Wenger un comodo parafulmine su cui lasciar cadere le eventuali critiche, ritrovarsi da solo, circondato da giornalisti che gli ricordano che il Milan non è l’Arsenal o sgridato pubblicamente da Zlatan Ibrahimovic, deve essere una sensazione nuova. Eppure, anche davanti alle prime pagine dei giornali sportivi, non riesco a scompormi: pur essendomi sorpreso a pensare, in occasione di qualche scialbo pareggio per 1-1 di inizio stagione, che in mezzo a tanti calciatori ancora acerbi persino una conclusione dalla distanza di Valter Birsa avrebbe ravvivato la serata, lo stesso ritorno di Zlatan Ibrahimovic, talmente anziano da essere stato effigiato in una statua già a sua volta distrutta, mi sembra una questione tutto sommato secondaria. Fa simpatia rivederlo, può dare senza dubbio una mano, è a suo modo piacevole, per quanto di dubbia utilità, passare dall’undicesimo all’ottavo posto, ma non sembra davvero così importante che resti o meno. E suscita più che altro ilarità che tocchi a lui lamentarsi di un Milan che non è più quello di una volta.

Il problema è che tutto ormai sembra già essere successo: il Milan non era più quello di una volta già anni fa, le liti tra dirigenti sono ormai un grande classico, le stesse discussioni si ripetono ciclicamente. Se provo a pensare a cosa potrà accadere con l’arrivo di Ralf Rangnick, con un curriculum più illustre dei suoi immediati predecessori, non posso evitare di pensare ai mille modi in cui potrebbe finire male: nel frattempo, assaporo ogni partita con più di un gol del Milan come se fossa l’ultima, e aspetto.