Uno degli effetti che ha avuto su di me la pandemia dal punto di vista del calcio, o meglio della sua assenza, è stato quello di confermare definitivamente come il calcio europeo vada sempre di più vissuto come un unico insieme e non come l’incontro sporadico e agonistico di leghe e mondi differenti e poco inclini al compromesso.
Diversi i motivi di questa conferma: vedere i diversi campionati prendere decisioni opposte o convergenti, a seconda dei casi, su come e quando ripartire; concentrarsi, per forza di cose, sulla Bundesliga, il primo torneo a ripartire, con la straniante e meravigliosa esperienza di viverlo come se fosse il proprio; calarsi, da appassionati e da addetti ai lavori, in uno stato di calciomercato, scouting e teorica tattica permanente, anche solo per assenza di calcio giocato, e quindi per forza di cose spulciare rose, calendari e prospetti di club di nazioni diverse; coordinare calendari differenti ma, in fondo, legati da esigenze e destini molto più similari e interdipendenti di quanto pensassimo. Insomma, iniziare a vedere e considerare il calcio europeo come la vera nuova dimensione del nostro amato sport, quella da cui ripartire, mi pare essere diventata una priorità assoluta. Una piacevole priorità, personalmente.
In fondo, se ci pensiamo, fattori come l’offerta del calcio in tv in continua espansione, l’evoluzione sui social di club e calciatori, gli e-sport e la loro capacità di fornire esperienze e connessioni, il marketing sempre più globale che coinvolge il mondo del pallone, non potevano che portare a un avvicinamento di culture diverse. O, meglio ancora, a un superamento naturale di confini desueti. Un effetto macroscopico ma che rischia di restare solo ottico se non accompagnato culturalmente e politicamente. Un organismo come l’ECA, ad esempio, coi suoi progetti di evoluzione ed espansione dei tornei europei, finisce per essere molto più aderente ai tempi che viviamo rispetto ad organizzazioni nazionali legate a un vecchio modo di vedere le cose. Il che non vuol dire schiacciare i valori e le tradizioni locali, anzi, significa al contrario rivalorizzarli all’interno di un quadro capace di aggiornare contenuti tecnici e di spettacolo di tutti. Si può discutere sul come e sul quando, ma non accettare che una dimensione continentale del calcio sia l’unica sostenibile in un mondo globalizzato e comunicativamente senza confini, significa fare un torto allo sport più bello del mondo e negargli un pezzo di futuro. Anche, paradossalmente, a livello nazionale.
Un esempio: si parla tanto del fatto che i giovani talenti di casa nostra non siano in grado di trovare spazio, con continuità, nei nostri grandi club. Ma perché non lavorare perché trovino spazio nei grandi club e basta, che siano di casa nostra o meno? È piena la storia del pallone di nazionali leggendarie il cui cuore dello spogliatoio era costituito da giocatori diventati grandi in altre leghe. Oggi, più che mai, competere e cooperare a livello europeo vorrebbe dire questo. È più importante che Zaniolo trovi spazio nella Juve o nell’Inter, o aumentare le sue chanche di diventare protagonista nel City, nel Bayern, nel Psg, nell’Arsenal, nel Borussia, nel Barcellona o nel Madrid?
E, dall’altro lato, lo stesso ragionamento si può fare per i nostri club. Recentemente mi hanno chiesto se non mi farebbe piacere che la squadra per cui faccio il tifo, la Juve, nel futuro tornasse ad avere un blocco italiano al centro della propria rosa, come da tradizione. Cinque anni fa avrei detto sì. Oggi mi sono invece trovato a rispondere che i nuovi campioni sono così intrisi di calcio internazionale sin da piccoli, che non serve loro essere italiani per “capire meglio” la Juve. Per come li vedo io, per come si raccontano loro, Bentancur o Dybala o De Ligt, o magari Paul Pogba o chi per loro, sono solo esempi, possono potenzialmente diventare i “nuovi italiani” da cui ripartire. Non sono io ad aver cambiato idea, è il mondo che è andato avanti, e con lui, grazie al cielo, anche i nuovi protagonisti del calcio. La scelta è urgente: adeguarsi, senza subire il corso degli eventi ma abbracciando le evoluzioni e cavalcandole, o consegnarsi all’irrilevanza.