Sebastián Abreu non ha ancora smesso di fare spettacolo

El Loco è arrivato a 43 anni, eppure continua a onorare il significato del suo soprannome.

Negli anni Ottanta lo scrittore svedese Björn Larsson inizia a immaginare il prima e il dopo della vita di Long John Silver, il pirata senza una gamba che alla fine dell’Isola del tesoro di Stevenson scappa con una parte del bottino del capitano Flint. Ne viene fuori un libro pubblicato in Italia nel 1998 e considerato un piccolo gioiello dagli appassionati di letteratura nordica (è il secondo titolo più venduto di sempre dalla casa editrice Iperborea): La vera storia del pirata Long John Silver.

La notte in cui diventa famoso in tutto il pianeta segnando con un cucchiaio il rigore decisivo nei quarti di finale dei Mondiali 2010 tra Uruguay e Ghana, anche Sebastián Abreu ricorda un po’ un pirata. Ha un filo di barba, i capelli lunghi fino alle spalle e una fascetta in testa. Ma c’è altro in comune tra Long John Silver e Abreu: come il pirata sfugge agli stereotipi della sua categoria (non ama bere e mette in banca i suoi risparmi invece di spenderli tutti nelle taverne e nei bordelli dei porti in cui attracca), così l’attaccante uruguaiano è un personaggio molto più complesso della narrazione di “pazzo bomber giramondo” che, anche in virtù del suo soprannome (Loco, appunto), resiste e viene alimentata da un decennio grazie principalmente a quel gol contro il Ghana e al record mondiale di trasferimenti certificato dal Guinness dei primati (29 squadre diverse in 25 anni di carriera).

Per esempio: se gli chiedete qual è il ricordo più felice della sua carriera, la risposta vi sorprenderà. Del resto ai Mondiali 2010 l’Uruguay deve pur qualificarsi, e nell’autunno dell’anno precedente il quinto posto nel girone sudamericano significa spareggio interzona contro il Costa Rica. All’andata, in trasferta, la Celeste vince 1-0 grazie a un gol di Diego Lugano, mentre al ritorno è proprio Sebastián Abreu a realizzare la rete della tranquillità (prima del definitivo 1-1) con un colpo di testa con cui sovrasta il difensore avversario come Hateley su Collovati nel 1984: «Scelgo il rigore al Ghana e il playoff contro il Costa Rica perché una cosa porta all’altra, e senza quel gol magari non saremmo arrivati ai Mondiali».

Abreu è alto 193 centimetri e in elevazione se la cava molto bene anche perché, da bambino, suo padre (un calciatore dilettante) lo allena nel terzo tempo cestistico mettendo dei cerchi sul pavimento in cui fare i passi prima di saltare. Sostiene addirittura di essere stato convocato dalle selezioni Under 17 uruguaiane di basket, pallavolo e calcio, e chi l’ha visto giocare a pallacanestro lo ricorda come un ragazzino molto portato. A 14 anni scrive anche per il giornale della sua città, il Diario Serrano di Minas, e dopo la finale di un torneo in cui realizza 53 punti e vince il premio di Mvp torna a casa, si mette davanti alla macchina da scrivere e si intervista da solo, firmando l’articolo. Il direttore non la prende molto bene. Abreu comunque sceglierà il calcio, un po’ perché offre maggiori garanzie economiche per il futuro, un po’ perché un giorno viene cacciato dalla nazionale Under 17 di basket per aver fatto tardi al pub durante un ritiro.

Circa un mese fa, il 4 giugno, è caduto il 25° anniversario del suo esordio nella Primera División uruguaiana. Un esordio tra il comico e il drammatico perché, sul punteggio di 1-1 tra il Defensor Sporting (la sua squadra) e il Liverpool (un club di Montevideo che deve il suo nome alla città inglese da cui salpavano la maggior parte delle navi dirette in Uruguay), Abreu sbaglia completamente il tempo di un colpo di testa nella sua area di rigore e commette uno dei falli di mano più plateali e grotteschi della storia del calcio. Gol del Liverpool, 2-1.

Abreu gioca in Messico, nel Cruz Azul di Mexico City, tra il 2002 e il 2003: in totale, segna 37 reti in 43 partite ufficiali (Omar Torres/AFP via Getty Images)

Oggi l’attaccante uruguaiano ha 43 anni e non si è ancora ritirato: è allenatore-giocatore del Boston River, nel suo Paese. Di conseguenza è anche l’ultimo calciatore rimasto in attività ad aver diviso il campo da calcio con Maradona. Succede nel 1997 durante un Boca Juniors-San Lorenzo in cui Abreu riesce persino a scambiare la maglia con Diego. Per non farsela rubare dai compagni di squadra (!), poi, la nasconde dietro un armadio negli spogliatoi della Bombonera e aspetta che tutti escano per recuperarla. Solo che a un certo punto la maglietta è troppo lontana e con la mano lui non ci arriva più: «Un magazziniere mi afferrò le gambe e la presi con una scopa».

Al San Lorenzo Abreu inizia anche a farsi un nome (soprattutto in Spagna, dove diventa famoso per un gol sbagliato a porta vuota contro il River Plate rilanciato dal programma televisivo El día después — e infatti nel 1998 passerà al Deportivo La Coruña) e un soprannome, Loco, che gli danno due compagni perché alle otto di mattina balla la cumbia nello spogliatoio. Nel 2002 alcuni giornali sudamericani ci ricameranno sopra dopo un incidente stradale in cui un suo amico rimane ucciso. «Ho imparato a convivere con quel dolore», racconta Abreu, «se fossi stato ubriaco o stessi guidando a 180 all’ora forse sarebbe cambiato qualcosa, ma ho preso una pozzanghera in curva, la macchina ha sbandato e ho perso il controllo».

L’attaccante non ama l’accezione negativa del termine “pazzo” («in alcuni Paesi ho dovuto convivere con giornalisti che non conoscevano il mio stile di vita e usavano il mio soprannome per rinfacciarmi partite giocate male») e ha una spiegazione per i continui cambi di squadra delle ultime stagioni (dal 2013 in poi è stato una volta in Argentina, una in Ecuador, tre in Uruguay, una in Paraguay, due in El Salvador, due in Brasile e tre in Cile): «Negli spogliatoi degli anni Novanta e Duemila c’erano otto o nove giocatori importanti che aiutavano i giovani a diventare dei leader. Adesso i ragazzi hanno meno questa possibilità, così cerco di contribuire dando il mio esempio in club che hanno poca disponibilità economica». Nella sua carriera Abreu è sceso in campo anche in Messico, Israele e Grecia: «Ho imparato lingue, idiosincrasie, stili di gioco e mentalità calcistiche differenti». Si considera una persona «totalmente felice», il Loco.

Quella del River Plate è la maglia più prestigiosa indossata da Abreu nella sua carriera: con i Millionarios gioca in due periodi diversi, tra il 2008 e il 2009, e vince un torneo di Clausura (Ronaldo Schemidt/AFP via Getty Images)

Ha vinto la Copa América con l’Uruguay nel 2011, due tornei Clausura argentini, un campionato dello Stato di Rio de Janeiro in Brasile, un torneo Apertura in El Salvador e due campionati uruguaiani con il Nacional, la sua squadra del cuore. Nel 2005 il Nacional e il Defensor Sporting arrivano primi in classifica con gli stessi punti, 41, e devono disputare uno spareggio per lo scudetto. Il Defensor Sporting, però, si rifiuta di scendere in campo in polemica per un calcio di rigore assegnato al Nacional durante il quinto minuto di recupero dell’ultima giornata contro il Rocha. Quel rigore se lo procura proprio Abreu: in effetti il fischio è molto generoso. Sul punteggio di 2-2 e ben oltre il 51’ del secondo tempo, comunque, il tiro dal dischetto per raggiungere lo spareggio per il titolo va anche segnato. E con estrema freddezza, senza poi neanche festeggiare, lo realizza lui con un cucchiaio.

Nel 2013 Abreu raccontava di aver tirato 25 rigori così in carriera e di averne sbagliati solo due: «Se sali in auto pensando di schiantarti, ti schianterai». Nell’aprile 2010, pochi mesi prima della partita contro il Ghana, il Botafogo batte 2-1 il Flamengo e conquista il campionato Carioca. Il gol decisivo lo mette a segno l’attaccante uruguaiano a metà del secondo tempo con un cucchiaio. Nel febbraio 2011, pochi mesi dopo la partita contro il Ghana, si gioca Fluminense-Botafogo. All’8’ della ripresa, sul risultato di 2-1 per i padroni di casa, il Botafogo di Abreu ha un rigore per pareggiare. Il portiere avversario, Diego Cavalieri, sa già cosa lo aspetta: rimane immobile sulla linea di porta e neutralizza il cucchiaio. Tre minuti dopo il Botafogo ha un altro rigore. Questa volta Diego Cavalieri cambia idea e si tuffa, Abreu invece no. Altro cucchiaio. Rete. È tutto vero e visibile su YouTube, in questo video.

Abreu ha appena realizzato il famoso rigore a cucchiaio che porta l’Uruguay alla semifinale mondiale del 2010, quarant’anni dopo l’ultima volta; con la Celeste, El Loco ha accumulato 73 presenze e 31 reti (Michael Steele/Getty Images)

Il Loco veste sempre la maglia numero 13 in onore del suo idolo d’infanzia, l’ex centrocampista di Cagliari, Juventus e Perugia Fabián O’Neill, che la indossava al Nacional. Abreu ha una vera e propria ossessione per il 13: abita al civico 13, le ultime cifre del suo cellulare sono 1 e 3, la targa della sua macchina finisce con il 13. Ma nel 2009, quando si trasferisce alla Real Sociedad, il 13 è già occupato dal secondo portiere. Qui però bisogna aprire una parentesi. A chiamare Abreu alla Real Sociedad è Juan Manuel Lillo, oggi vice di Guardiola al Manchester City e considerato dall’attaccante uruguaiano il miglior allenatore della sua carriera. Abreu e Lillo si conoscono nel 2006 al Dorados, in Messico, e insieme convincono Pep a chiudere la sua avventura da calciatore dall’altra parte dell’oceano. Solo che le argomentazioni che usano non sono del tutto sincere: «Un giorno venne da me Lillo e mi disse: Seba, devi aiutarmi a far venire Guardiola. Ai tempi ci allenavamo in un parco acquatico e ci cambiavamo negli spogliatoi della struttura. Dovevamo fare attenzione a girare troppo svestiti perché c’erano delle famiglie con i bambini. Io raccontai a Guardiola che la città aveva una spiaggia e il centro sportivo era ben attrezzato».

Tornando al 13 e alla Real Sociedad, per aggirare il problema Abreu sceglie il 18 ma fa incollare una piccola riga bianca verticale che divide l’8 in due metà, due 3 speculari. Anche nel 2019, al Boston River, il 13 non è disponibile: Abreu lavora ancor più di fantasia e termina il campionato con il 113 sulle spalle. Nel 2016, appena arrivato al Santa Tecla in El Salvador, l’uruguaiano viene presentato con il 13, ma quando è ora di scendere in campo indossa il 22. Il suo numero preferito nel Paese centroamericano è infatti legato all’organizzazione criminale Mara Salvatrucha.

Con il Santa Tecla è giocatore e poi player-manager, a cavallo tra il 2016 e il 2019; in El Salvador ha vinto un campionato e una coppa nazionale (Marvin Racinos/AFP via Getty Images)

El Salvador è anche la patria degli ultimi successi del Loco, come sempre tutt’altro che banali. La finale del torneo Apertura 2016 (Alianza-Santa Tecla 2-3) la decide lui a 40 anni con una doppietta di testa tra il 78’ e il 91’, mentre nella primavera del 2019, terminata l’esperienza in Brasile al Rio Branco e in attesa di firmare con il Boston River in Uruguay, il Santa Tecla lo chiama, questa volta come allenatore, per l’atto decisivo della coppa nazionale contro l’Audaz. Abreu firma il contratto il 23 aprile e una settimana più tardi, il 30 aprile, esordisce in panchina vincendo il suo primo trofeo da coach. Tra l’altro l’incontro non termina neanche: viene sospeso sull’1-0 per il Santa Tecla all’85’ a causa di un temporale che trasforma il campo in una piscina.

Abreu dice di volersi ritirare a dicembre 2020, quando avrà 44 anni, «per superare mio padre che ha giocato fino a 43 anni e 10 mesi». Poi farà soltanto l’allenatore. Ma la dinastia degli Abreu è destinata a continuare. Uno dei figli di Sebastián, Diego, è nato nel 2003 e fa l’attaccante come il papà e il nonno. Il suo tecnico lo descrive così: «Può stare 70 minuti senza toccare un pallone, ma se all’85’ la palla arriva in area qualcosa succederà». Difficilmente Diego batterà il record di 29 squadre diverse in carriera, ma intanto è già stato convocato dalla selezione Under 18 del Messico e ha dichiarato di voler giocare, in futuro, anche per l’Uruguay. Due nazionali non le ha mai avute neanche il Loco.