Dopo i tre gol e i tre assist accumulati nelle gare ultime due gare contro Brighton e Bournemouth, Bruno Fernandes è arrivato a quota sette reti e sei passaggi vincenti nelle ultime undici partite disputate con la maglia del Manchester United. Inoltre, nelle 14 gare (13 da titolare) in cui è sceso in campo, i Red Devils non hanno mai perso: dal primo febbraio, data del debutto di Fernandes nella gara a Old Trafford contro il Wolverhampton, sono arrivate dieci vittorie e tre pareggi per la squadra di Solskjaer. E lo stop forzato a causa della pandemia non sembra aver rallentato il fantastico trend individuale e collettivo: il trequartista portoghese, nominato per la terza volta consecutiva calciatore del mese dello United, è uno dei calciatori più efficaci e belli da vedere del calcio post lockdown. Inoltre si è anche guadagnato il curioso soprannome di “The Milkman” quando le telecamere di Sky Sports lo hanno inquadrato in panchina dopo la sostituzione, intento a bere una bevanda isotonica dal colore simile a quello del latte: «Sembra una di quelle bottiglie che ti davano a scuola negli anni Settanta», ha detto l’ex terzino del Man Utd Gary Neville, impegnato come color commentator.
Al di là di numeri, statistiche e soprannomi, l’adattamento dell’ex Sampdoria e Udinese alla Premier League è stato immediato e felice. Era andata così anche quando lasciò l’Italia: i 63 gol e i 52 assist nelle due stagioni e mezza con lo Sporting Lisbona lo hanno consacrato come uno dei calciatori più decisivi d’Europa, in grado di attirare l’interesse dei grandi club e di passare da una valutazione di 8 milioni ad una di 80 – anzi, 55 più 25 di bonus. In pratica, Bruno Fernandes ha dimostrato fin da subito di valere questa cifra, soprattutto in prospettiva futura: a fine febbraio, poco prima che il Covid imponesse lo stop dei campionati, Solskjaer aveva dichiarato che «l’arrivo di Bruno ci dà qualcosa di diverso. Ha una visione di gioco straordinaria, vede le cose un paio di secondi prima rispetto agli altri giocatori e in una frazione di secondo riesce a cambiare idea. Giocando in un campionato più forte con avversari e compagni più forti non potrà fare altro che crescere. Ha impressionato tutti». Parole che, rilette oggi, fanno capire come il tecnico norvegese avesse già capito dove e come il suo (costosissimo) nuovo acquisto avrebbe potuto fare la differenza.
Per capire cosa Solskjaer intendesse con «qualcosa di diverso» bisogna andare oltre i dati statistici, che contano fino a un certo punto. L’insostituibilità del portoghese nel sistema del Manchester United è, infatti, una questione prima di tutto visiva, di percezione che lo spettatore ha quando lo vede giocare. Un dettaglio marginale solo in apparenza ma che in realtà spiega come sia diventato una soluzione alle criticità riscontrate nella trasmissione della palla e nel consolidamento del possesso, agendo da “pendolo” nella fascia centrale come fosse una sorta di quarterback Nfl capace di dettare i ritmi offensivi di tutta la squadra. Il tecnico norvegese, per sfruttare al meglio le sue qualità quando vede la porta di fronte a sé preferisce schierarlo come trequartista sia nel 4-3-1-2 che in un 4-2-3-1 spurio in cui i due esterni offensivi si trovano spesso ad agire sulla stessa linea della prima punta, spot che, in questo momento, viene occupato da Martial, autore di sette reti nelle ultime undici partite. Eppure non è raro vederlo muoversi da mezzala o da playmaker aggiunto a seconda di ciò che serve affinché l’azione si sviluppi e progredisca.
Il portoghese è perciò diventato un generatore automatico di occasioni, il grande burattinaio che muove i fili e che che crea i presupposti dell’azione da gol, che sia attraverso il dribbling o la bidimensionalità del suo passing game. E se la già citata doppietta al Brighton è arrivata nel picco di uno stato di forma che sarà difficile mantenere così stabile nel lungo periodo, lo show a Old Trafford contro il Bournemouth può essere considerato il manifesto di come il numero 18 in maglia rossa abbia ormai acquisito il completo e totale controllo di quello che accade attorno, deformando a proprio piacimento la dimensione spazio-tempo di ogni singola giocata. In fondo lo avevamo già visto nelle tre partite (contro Watford, Everton e Manchester City) giocate a cavallo tra fine febbraio e inizio marzo, quando tutto passava dai suoi piedi ben al di là del numero di gol o di assist mandati a referto.
La giocata con cui Martial risolve l’azione – dopo l’assist di Bruno Fernandes – è da vedere e rivedere
Non deve perciò stupire che Solskjaer gli abbia materialmente consegnato le chiavi dell’intera fase offensiva, concedendogli un’autonomia nella ricerca di spazi e connessioni sulla trequarti che nessuno dei suoi compagni ha. Anzi, che nessuno dei suoi compagni può avere. Perché se è vero che Bruno Fernandes fa giocare meglio il Manchester United, è altrettanto vero che ciò accade perché tutto il Manchester United è al servizio di Bruno Fernandes, che ha il compito di alzare il livello delle prestazioni tutti quelli che sono intorno a lui, in quella che è a tutti gli effetti la rappresentazione della teoria dell’eliocentrismo applicata al calcio professionistico: ogni volta che Matic e Fred recuperano un pallone è come se il loro corpo si predisponesse in maniera automatica per recapitarlo il prima possibile sui piedi dell’ex sampdoriano e, allo stesso modo, i movimenti nevrili e flessuosi di Greenwood, Rashford e Martial a chiamare l’assist nello spazio in verticale ricalcano in tutto e per tutto il linguaggio del corpo degli sprinter che aspettano lo sparo dello starter per scatenare la loro velocità nel breve.
Bruno Fernandes, dunque, ha vissuto un miglioramento individuale che poi ha portato pure nella sua nuova squadra: oggi è un giocatore che ha imparato a razionalizzare di ogni giocata, facendo prevalere il tempismo e la pulizia nell’esecuzione sulla naturale inclinazione ad accelerare sempre e comunque. In questo articolo pubblicato a marzo su The Athletic, si legge che «il motivo principale per cui Fernandes può essere considerato un centrocampista “top class” a 25 anni va ricercato nella sua abilità di stoppare la corsa, fermarsi e prendersi quel secondo in più necessario a valutare tutte le opzioni disponibili». Un dettaglio in controtendenza rispetto calcio fisico e ipercinetico della Premier, ma che in qualche modo rappresenta pure la ragione per cui il portoghese è riuscito ad affermarsi così velocemente nel Manchester United, e nel suo contesto.
Attualmente le prospettive più intriganti per il futuro, a breve e a lungo termine, riguardano lo sviluppo della sua dimensione associativa all’interno di un collettivo che, dal punto di vista delle individualità, resta comunque uno dei migliori della Premier. Dopo la gara contro il Brighton, Bruno Fernandes ha detto di non essere troppo d’accordo con la sua recente sovraesposizione mediatica perché «abbiamo tanti altri grandi giocatori in grado di fare la differenza». Frasi che sono state inizialmente mal interpretate, quasi come se volesse sottostimare la sua importanza all’interno dello United. In realtà si tratta di un’ulteriore dimostrazione di come stia diventando un leader non solo tecnico ma anche emotivo, in grado di stimolare e motivare il supporting cast di quella che sarà la presumibile nuova base tecnica della prossima (ed ennesima) ricostruzione del Manchester United. Che, con al centro un Bruno Fernandes all’apice del suo prime tecnico, fisico e psicologico, dovrebbe essere più facile. O quantomeno più coerente.