Lo scorso 29 gennaio, Inter Media House ha deciso di presentare Christian Eriksen con un video girato all’interno della Scala di Milano, introducendo il danese ex Tottenham come il maestro destinato a dirigere il centrocampo dell’Inter. A un certo punto della clip, la suadente voce narrante sostiene che: «i sogni ti portano dove non pensavi saresti mai arrivato». Era un modo per celebrare un’operazione di mercato dal grande impatto mediatico e politico, ma che però destava qualche perplessità dal punto di vista puramente tecnico-tattico: molti, infatti, dubitavano del fatto che Conte potesse riuscire a inserire fin da subito un giocatore cerebrale e dall’atletismo poco accentuato come Eriksen.
In questi primi mesi di Inter, i tentativi in questo senso hanno avuto risultati altalenanti: incerti all’inizio, molto incoraggianti al rientro dalla sosta, sempre meno efficaci nelle ultime settimane. Le recenti difficoltà dell’Inter hanno messo tutti sul banco degli imputati, da Conte ai giocatori, e lo stesso Eriksen è stato criticato da più parti, anche se con toni certamente più clementi rispetto ad altri membri della rosa – primo tra tutti Roberto Gagliardini. Nessuno ha ancora chiesto la testa del danese – e ci mancherebbe – ma il dibattito sul rendimento dell’ex Tottenham è tornato un argomento di discussione, un argomento che al di là di isterismi e processi sommari è interessante analizzare per capire come si potrà evolvere la sua avventura nerazzurra.
Con l’Inter, finora, Eriksen ha disputato 14 partite, segnando tre gol e fornendo tre assist decisivi. Nelle otto gare in cui è stato utilizzato prima della sospensione della Serie A e delle coppe europee, il danese ha fatto intravedere qualche giocata di livello assoluto – a partire dalla traversa colpita su punizione nel derby contro il Milan – pur sembrando a tratti a disagio nel ruolo in cui Conte ha deciso di schierarlo inizialmente: mezzala sinistra in un centrocampo a cinque.
La chiusura del campionato a partire dall’8 marzo ha dato tempo a Conte di lavorare su un modulo che facilitasse il più possibile l’inserimento del nuovo arrivato. Così l’Inter si è presentata alla ripartenza con un 3-4-1-2 in cui l’ex Tottenham occupa lo slot di trequartista alle spalle di Lukaku e Lautaro Martínez. Nelle prime due uscite contro Napoli e Sampdoria i risultati sono stati abbastanza positivi: la squadra di Conte attaccava in modo fluido, senza più affidarsi esclusivamente alle combinazioni dei due attaccanti, e sembrava finalmente meno in imbarazzo nell’affrontare avversari che si difendevano abbassando di molto il baricentro. Soprattutto, il nuovo modulo sembrava funzionare per quando riguarda l’inserimento di Eriksen, ottimo nel partecipare alla costruzione bassa, assecondando le rotazioni del centrocampo, e nel contributo creativo, come testimoniano gli ottimi numeri registrati per tocchi di palla (64 a Napoli e 66 contro la Samp) e conclusioni (cinque per partita). Dopo l’ottima prova contro la Sampdoria, Eriksen aveva dichiarato di sentirsi bene, anche se non ancora al top di condizione, e che «il vero Eriksen si sarebbe visto a breve».
Proprio durante la partita contro la Sampdoria, abbiamo assistito a quella che probabilmente è la più bella giocata di Eriksen da quando è in Italia: l’assist di prima che manda in porta Lukaku per il gol del vantaggio, servito dopo un perfetto movimento da trequartista schierato dietro due punte
Nelle partite successive, invece, la maggior parte dei progressi mostrati dalla squadra di Conte è svanita progressivamente. I nerazzurri hanno finito per perdere punti contro avversari tecnicamente inferiori, e anche quando sono riusciti a vincere – ad eccezione del netto 6-0 al Brescia – non hanno più mostrato la brillantezza vista a metà giugno. Dal canto suo, il contributo di Eriksen è diventato via via più marginale, infatti è calato il numero dei suoi di tocchi di palla (39 di media nelle partite giocate da titolare), passaggi e conclusioni in porta. Le ragioni e le origini delle difficoltà vissute da Eriksen e dall’Inter non possono dipendere esclusivamente dal modulo scelto da Conte, visto che sia le partite migliori che quelle peggiori di Eriksen sono arrivate dopo il passaggio al 3-4-1-2.
Un altro problema riguarda i suoi compagni: l’inevitabile turnover e gli infortuni a centrocampo hanno fatto sì che il danese non abbia mai trovato continuità e intesa con una certa coppia di mediani alle sue spalle – difatti solo nelle due gare contro Sassuolo e Parma è stato protetto da Barella e Gagliardini. Eriksen, dunque, ha dovuto adattarsi a un contesto sempre nuovo in ogni partita, non proprio la situazione ideale per permettere ad un giocatore d’inserirsi e trovare fiducia. Sempre riguardo questo aspetto, va sottolineato come la miglior prestazione di Eriksen sia arrivata a Napoli, quando a centrocampo c’erano i due elementi con più qualità a disposizione di Conte: Brozovic e Barella. Dopo quella partita, il croato non ha più giocato per un problema fisico – infatti è rientrato solo nell’ultima gara contro il Bologna – così Eriksen si è visto privato di un’interlocuzione del suo livello tecnico.
Andando oltre la tattica, ci sono altri due parametri di cui tener conto. In primis, va ricordato che Eriksen ha passato gli ultimi mesi del 2019 da separato in casa al Tottenham, e poi i primi del 2020 in lockdown, quindi non ha mai avuto davvero la possibilità di recuperare la differenza di condizione rispetto ai propri compagni. Difficile chiedere a un atleta reduce da un’annata così interlocutoria di giocare ad alto ritmo, considerando anche le sue particolari caratteristiche fisiche. Poi, c’è l’aspetto mentale. Neanche da questo punto di vista Eriksen è stato agevolato: a dispetto del nuovo slogan «No crazy, no more», l’Inter di Conte ha seguito il canovaccio delle ultime stagioni, ovvero ha continuato a perdere punti nei modi più schizofrenici possibili, palesando le solite difficoltà quando si è trattato di “uccidere” gli avversari tramortiti nel primo tempo. Nella prima parte dell’anno, questa mancanza di killer instinct si era palesata in poche occasioni, per esempio contro il Borussia Dortmund, ma è esplosa letteralmente dopo il lockdown, contro Sassuolo e Bologna.
Tutti problemi atavici che precedono l’arrivo di Eriksen e la cui mancata soluzione, più che il danese, deve chiamare in causa allenatore e dirigenza. Ma è anche vero che l’Inter ha investito su Eriksen proprio per cercare di risolvere questi problemi. Quello che è legittimo chiedere ad Eriksen già da ora è un atteggiamento meno timido nelle fasi cruciali delle partite, quando l’Inter deve mantenere il controllo. Da questo punto di vista il danese può già contribuire, se non sul lato emotivo, per lo meno su quello tecnico, gestendo il tempo dell’azione, le pause, accentrando su di sé le responsabilità creative. Eriksen, invece, è spesso sembrato estraniarsi dal contesto proprio in certi momenti, quelli più complicati, soprattutto nei secondi 45′ di gioco; quando esce dalla partita, inoltre, ha un linguaggio del corpo molle, troppo titubante. Al netto delle attenuanti, che ci sono e vanno considerate, un giocatore del suo spessore forse avrebbe dovuto garantire fin da subito un contributo maggiore nelle fasi più calde del gioco.
Tutti gli ostacoli che stanno rallentando il processo di inserimento di Eriksen, ovviamente, possono essere superati col tempo, ovvero la variabile che in questi casi viene considerata meno. Complici i ritmi frenetici della Serie A dopo il lockdown, in meno di un mese siamo passati dagli elogi dopo Inter-Sampdoria – quando tanti hanno proclamato la «risoluzione del rebus Eriksen» – ai paragoni inquietanti con Dennis Bergkamp, uno dei grandi fuoriclasse incompresi nella storia nerazzurra. Sostenere che Eriksen non si sia calato ancora nella nuova realtà, però, non vuol dire credere che non possa riuscirci in futuro. Prima di bollarlo in maniera definitiva come il nuovo Bergkamp, o anche come il nuovo Sneijder, servirà dunque aspettare. Occorre dare tempo a Eriksen perché possa adattarsi a un nuovo contesto, servirà dare tempo a Conte perché riesca a trovare il modo di esaltare le caratteristiche del centrocampista danese all’interno del suo sistema. Anche da questo passa la crescita dell’Inter, per qualità e mentalità.