I tornei competitivi di Scrabble hanno abolito 296 parole valide considerate discriminatorie

Ma non tutti i giocatori hanno accolto bene questo provvedimento.

Per tante persone negli Stati Uniti, lo Scrabble è molto più di un gioco. Ci sono dei tornei professionali, c’è un business importante di soldi e sponsor, dunque c’è grande attenzione mediatica. Ed è per questo che le proteste antirazziste di questi giorni, negli Stati Uniti e nel resto del mondo, hanno avuto un impatto anche sulla lista ufficiali delle parole che “fanno punteggio”, cioè che sono ritenute valide nei circuiti pro. Il New York Times ha spiegato infatti che 226 termini – sui circa 192mila accettati dal regolamento – sono stati aboliti perché ritenuti discriminatori, offensivi nei confronti delle minoranze.

Hasbro, società produttrice di giochi da tavolo che possiede i diritti di Scrabble per tutto il Nord America, ha annunciato che l’associazione dei giocatori «ha accettato di rimuovere tutte le insulti dalla loro lista di parole per i tornei ufficiali». John Chew, amministratore delegato dell’associazione, ha confermato che «questa era ed è la cosa giusta da fare». In realtà, però, l’azienda non ha alcun legame con i giocatori del circuito professionistico, c’è solo un accordo per lo sfruttamento del nome nell’ambito dei tornei competitivi, quindi non era scontato che la decisione di estromettere alcuni termini dalla lista di parole accettate potesse essere concordata da entrambe le parti in causa. E infatti alcuni giocatori si sono lamentati di questo provvedimento, perché secondo loro altererà in maniera eccessiva le dinamiche che determinano la vittoria o la sconfitta.

Stefan Fatsis, autore di World Freak, un libro sullo Scrabble competitivo, ha spiegato che «per i giocatori, le parole sono solo un mezzo per accumulare punti: non hanno alcun significato». Si tratta di una visione condivisa anche da persone che dovrebbero ritenersi offese o discriminate da certe parole finora accettate durante i tornei. Tra questi, per esempio, c’è Noel Livermore, un giocatore nero della Florida che si oppone alla rimozione di qualsiasi termine dalla lista di quelli che fanno accumulare punteggio durante una partita di Scrabble: «Io gioco per segnare punti su quel tabellone, per me una parola vale l’altra. Parliamo di un gioco di numeri travestito da gioco di parole: anche quando gli avversari hanno composto sul tabellone una parola che è un insulto contro di me e contro i neri, io non ho provato nessuna emozione».