Sulle tracce del Maracanazo

A Montevideo con Alcides Ghiggia, l’uomo che fece piangere il Brasile nel 1950.

Uruguay, 2009. L’esca era un servizio, breve e un po’ troppo “letterario”, pubblicato dal supplemento settimanale de El País. Un giornalista del quotidiano spagnolo era andato in Uruguay a cercare Alcides Ghiggia, e non l’aveva trovato. O meglio, raccontava di averlo intravisto a Las Piedras, il paesino in cui viveva, ma apparentemente non ci aveva parlato visto che, all’interno del reportage, non figuravano i cosiddetti “virgolettati” dell’anziano campione. Un bel rebus. Erano gli ultimi giorni di marzo del 2009, e l’avventura di Maradona ct era talmente ruggente – nel bene e nel male – da consigliare di seguirla dal vivo anche in gare scontate come quella casalinga contro il Venezuela. Così, per ingannare il tempo in un lungo pomeriggio ai bordi del campo di Ezeiza (la Coverciano argentina, a pochi chilometri dall’omonimo aeroporto internazionale di Buenos Aires), cominciai a chiedere in giro un numero di telefono di Ghiggia. Sorprendentemente, saltò fuori subito: tutti i colleghi più anziani l’avevano in agenda, un’utenza fissa, non un cellulare. Nel 2009 Alcides aveva 83 anni, ed era già il più vecchio dei campioni del mondo ancora viventi; in ottobre la scomparsa del difensore brasiliano Juvenal l’avrebbe reso l’ultimo superstite del Maracanazo.

Chiamai quel numero subito, e con una certa emozione. Si può dire senza tema di smentita che il gol segnato da Ghiggia al Brasile il 16 luglio 1950, il definitivo 2-1 per l’Uruguay al 34’ della ripresa, sia il più pesante della storia del calcio. A dispetto del fatto che il Mondiale del ‘50 sia l’unico non concluso da una finale, ma da un girone a quattro squadre, la partita del Maracanã – 200 mila spettatori, primato assoluto – fu comunque l’ultima e la decisiva: la differenza con una finale è che al Brasile, in forza dei risultati precedenti, sarebbe bastato anche il pareggio. Ed è questa considerazione, unita all’ambiente ineguagliabile (il Maracanã ristrutturato del 2014 è un grande stadio “normale”, quello del 1950 era una cattedrale metafisica), ad aver perpetuato nel tempo l’assioma che quella vittoria dell’Uruguay costituisca la sorpresa più grande della storia. Assioma che il buon Alcides di lì a poco ci avrebbe smontato, ma non corriamo troppo. Siamo ancora al suo numero di telefono…

Ghiggia risponde subito, come se vivesse accanto all’apparecchio. Una voce minuta, un tono cortese; capisce immediatamente la finalità della mia chiamata, ricorda benissimo la Gazzetta dello Sport e dice che sì, non avrebbe problemi a incontrarmi. Quando potrei venire in Uruguay? Devo decidere io, ché tanto lui non ha niente di particolare da fare. Potrebbe andar bene domani a pranzo, certo. Il tempo di verificare che ci sia posto sull’aereo e lo richiamo: appuntamento fissato a Las Piedras – «sono pochi chilometri dalla periferia di Montevideo» –, ci vedremo nella caffetteria della piazza principale, non posso sbagliare.

Buenos Aires e Montevideo sono separate dall’ampio estuario del Río de la Plata, venti minuti di volo sopra un fiume che porta all’oceano le sue acque rosse. L’effetto causato dal fondo argilloso è sempre impressionante – posto finestrino su quella tratta, segnatevelo – ma quel giorno l’osservo appena perché il preavviso è stato breve, e il materiale da consultare su Ghiggia è tantissimo. La grande beffa passata alla storia come Maracanazo è anche, direi fatalmente, l’episodio di pallone che più ha affascinato la letteratura, basti pensare a Osvaldo Soriano e al suo indimenticabile ritratto di Obdulio Varela. All’aeroporto prendo un’auto a nolo, e anche se i chilometri di tragitto sono effettivamente pochi ci metto un po’ a raggiungere Las Piedras, perché subito fuori dalla capitale le strade si restringono e il traffico contadino aumenta a dismisura le sue pretese. In ogni caso, la caffetteria dell’appuntamento è raggiunta in orario. Ghiggia è già dentro, seduto accanto alla vetrata. Non è solo.

La grande beffa passata alla storia come Maracanazo è l’episodio di pallone che più ha affascinato la letteratura, basti pensare a Osvaldo Soriano e al suo indimenticabile ritratto di Obdulio VarelaLe presentazioni sono lente e ampollose, sfinenti visto che non ci vuole molto a capire dove andranno a parare i due “manager” che hanno accompagnato Alcides. Vogliono soldi per l’intervista. Però non devo pensare male: loro sono veri procuratori, mi snocciolano i nomi di numerosi giocatori sudamericani dei quali curano gli interessi, l’unico che mi dice qualcosa è Rodallega, un colombiano da poco arrivato al Wigan, gli altri sono emeriti sconosciuti. La famiglia Ghiggia ha chiesto loro di tirar fuori qualcosa dalle memorie di Alcides, e in attesa di scriverci un libro – «stiamo valutando l’autore» – il metodo più semplice è farsi pagare le interviste. All’improvviso mi è chiaro perché El País non aveva “virgolettati”, ed è quello che succederà anche a me. La Gazzetta, come la quasi totalità dei giornali italiani, francesi e spagnoli, non paga le persone che intervista. Lo fanno inglesi e tedeschi, per garantirsi esclusive e soprattutto dichiarazioni pepate: nessuno pagherebbe mai chi dice «si vince e si perde in undici».

I due tizi hanno età e stili diversi. Ce n’è uno più anziano, avrà passato da poco i 60, che fa il dispiaciuto e il suadente: pantaloni e camicia con le maniche corte – siamo alla fine di un’estate australe molto calda – sembra quasi scusarsi per la richiesta di 500 dollari. L’altro avrà 25 anni, veste in tuta e ha modi sbrigativi, il tipo che dice «non possiamo stare qui tutto il giorno» e nel farlo si dimena a esplicitare una fisicità minacciosa. In mezzo a questo mercato, Alcides Ghiggia, dopo essersi presentato alzandosi dalla sedia per stringermi la mano, non ha più parlato. Se già è un omino magro e rannicchiato su se stesso, ora sembra farsi ancora più piccino. Più che di un assistito ha l’aria di un ostaggio.

La Nazionale brasiliana del 1950, strafavorita alla vigilia del Mondiale, riuscì a perdere il titolo nonostante i 22 gol realizzati in sei partite (Staff/AFP via Getty Images)

Gli dico che capisco perfettamente il loro punto di vista, come in effetti è, perché trovo legittimo che ciascuno cerchi di trarre profitto dalle proprie esperienze. Il problema è che la politica del mio giornale esclude ogni forma di pagamento, anche modesta come 500 dollari. E dunque non insisterò per ottenere l’intervista, ma mi accontenterò dell’onore di avere preso un caffè col signor Ghiggia e con i suoi procuratori (qui un po’ paraculo, okay). Il locale è pieno di ragazzini appena usciti da scuola, che prima di tornare a casa si concedono una brioche nel reparto pasticceria: alcuni di loro vestono la divisa blu di un collegio cattolico, ho la sensazione di trovarmi nel luogo più chic di Las Piedras. I due tizi si guardano fra loro, il capo tenta un rilancio a 400 ma io non posso che ripetergli che si tratta di una questione di principio. Il giornale non me li rimborserebbe. «E allora niente intervista», conclude il giovane, sempre più spazientito. D’accordo. Posso scambiare due parole col signor Ghiggia mentre aspettiamo i caffè? «Faccia pure, ma niente domande sul Maracanazo»: il capo è rassegnato. Sorrido finalmente ad Alcides, che ha un’aria molto dolce. «Lei viene da Milano… Ci ho vissuto un anno a Milano, giocavo nel Milan, poco a dire il vero. Però abbiamo vinto lo scudetto. C’era Maldini, c’era Dino Sani, Rivera era un bambino e poi José… José Altafini, eravamo grandi amici, non lo sento da tanto tempo…». Un fulmine mi attraversa la testa.

«José, sei tu veramente? Sono Alcides», e per qualche minuto il dialogo fra vecchi compagni si sviluppa con toni commossiL’agendina con i numeri di telefono. Mi frugo nelle tasche: eccola, per fortuna l’ho portata. Non occorre sfogliarla, basta la lettera A: pigio i tasti ragionando rapidamente sul fuso orario, in Italia dovrebbe essere ora di cena. José risponde con la sua voce inconfondibile: dieci secondi per spiegargli dove mi trovo e chi sto per passargli, poi giro il telefono a Ghiggia, «è Altafini, perché non vi fate una bella chiacchierata?». L’omino magrissimo prende l’aggeggio e se lo porta all’orecchio tremante, «José, sei tu veramente? Sono Alcides…» e per qualche minuto il dialogo fra vecchi compagni si sviluppa con toni commossi. Anche i due procuratori sono colpiti dagli occhi liquidi del loro assistito, e tacciono rispettosi. Il clima è completamente cambiato. Ghiggia lancia un ultimo saluto ad Altafini e mi consegna il telefono con un sorriso tenerissimo. «Mi chieda pure quello che vuole», e con insospettabile grinta ferma con un gesto le proteste del più giovane, mentre il più anziano resta in silenzio. Ė a lui che mi rivolgo per chiudere l’accordo: gli ribadisco che la Gazzetta per principio non paga per un’intervista, ma sarebbe felice di invitare a pranzo il signor Ghiggia e i suoi procuratori. Ci siamo. Il vecchio filibustiere organizza una ritirata dignitosa: «Naturalmente è Alcides ad avere l’ultima parola, se ha deciso di farsi intervistare senza compenso noi non abbiamo nulla da aggiungere. Però mi fa piacere che lei, pur non potendo pagare, non si sia messo a strepitare contro di noi, come a volte fanno suoi colleghi (il pensiero corre di nuovo a El País, ndr) dimostrando di non aver capito dove si trovano. Per questo motivo ci fa piacere accettare il suo invito a pranzo».

La Coppa Rimet fu portata in Brasile dalla delegazione italiana: come da tradizione che sopravvive ancora oggi, il trofeo originale resta nella nazione della rappresentativa vincitrice dell’edizione precedente. Solo che tra il 1938, quando gli Azzurri vinsero a Parigi, e l’edizione brasiliana del 1950, ci fu anche una guerra mondiale (Staff/AFP via Getty Images)

La trattativa è presto dimenticata, perché il vecchietto che mi apre il baule dei suoi ricordi è quel che si dice una leggenda vivente. Mentre i due manager mancati si abbuffano, Ghiggia ritorna a quel 16 luglio di 59 anni prima sostenendo che la sorpresa fu in realtà relativa, visto che poche settimane prima del Mondiale, in amichevole, il suo Uruguay aveva già battuto il Brasile. Parliamo per venti minuti, di Varela e di Schiaffino, del povero Barbosa e di Friaça, del flop di Belfast da oriundo in maglia azzurra, della vita insieme semplice e complessa che aspetta chi ha fatto qualcosa di troppo grande per potersi poi mimetizzare. Quando Alcides, con la voce trionfante di chi ha appena avuto un’illuminazione, ripete la battuta presente in tutte le sue interviste («Soltanto tre uomini hanno zittito il Maracanã: Papà Giovanni Paolo secondo, Frank Sinatra e io»), capisco che è ora di passargli il menu.

Vivrà ancora sei anni, il grande Ghiggia, e a conferma del suo status di uomo molto speciale il suo ultimo giorno, nel 2015, sarà un altro 16 luglio, come nel ‘50. Da non crederci. Prima di morire, due soddisfazioni estreme: la grande festa allo stadio Centenario di Montevideo per gli 85 anni, vissuta con la sua maglietta celeste col numero 7 rosso sulla schiena, e l’invito al Maracanã per farsi prendere le impronte dei piedi entrando così nella Walk of Fame del mitico stadio di Rio. In grave ritardo, i brasiliani ci mettono sempre un po’ a elaborare il lutto.

Da Undici n° 17