Juventus, la leggenda degli uomini straordinari

Cinque autori per cinque temi sul nono scudetto consecutivo dei bianconeri.

Il nono scudetto consecutivo della Juventus ha fatto la storia del calcio, non solo quello italiano: mai, nei cinque campionati top in Europa, una squadra aveva esercitato un dominio così duraturo. Il dato più chiaro rispetto a questa superiorità schiacciante è quello degli allenatori: dopo Conte e Allegri, quello di Maurizio Sarri – che, con i suoi 61 anni e mezzo, è da ieri è il mister più anziano ad aver vinto il primo titolo di Serie A – è il terzo ciclo tecnico diverso nel grande ciclo di successi bianconero. Come ha spiegato anche lo stesso Sarri ieri sera, la vera forza della Juve sta nella «presenza della società», in una profondità gestionale che non ha pari in Italia, che ha pochi pari nel mondo e che riesce sempre a rinnovare il suo progetto nel tempo nonostante i cambi in panchina, gli inevitabili stravolgimenti della rosa. È questa la forza principale della Juve, ne parliamo in questo articolo con quattro autori che racconteranno anche gli altri protagonisti di questa stagione: Sarri, i giocatori della rosa, con un focus su Cristiano Ronaldo e Paulo Dybala.

Premessa dovuta: vincere non è mai banale

Ottantanove – è questo il limite massimo che la Juventus potrebbe raggiungere in termini di punti, se dovesse vincerle tutte da qui a fine campionato. È un numero altissimo, vicino alla media che era servita per vincere il titolo nelle stagioni precedenti, quando alla guida dei bianconeri c’era Massimiliano Allegri: se il confronto numerico non racconta la globalità e la complessità di una stagione, pure dice molto, o almeno qualcosa di significativo. Perché è vero: la Juventus in quest’anno di transizione – non di guida tecnica, ma di sistema, di filosofia: ché per assorbirla non basta un semplice anno – ha dovuto imparare concetti nuovi, e disabituarsi da alcune vecchie regole; certamente non si è arrivati all’approdo finale di questo processo, e forse anche per una precisa volontà tecnica, ma non era affatto scontato che la Juventus vincesse questo campionato, e in questo modo. Perché fare quasi novanta punti non è mai banale, il concetto stesso di vincere non è mai banale, pur con l’ovvia constatazione che il livello della Juventus a cui è arrivata nel corso dell’ultimo decennio è al momento inarrivabile per le avversarie del campionato.

Eppure anche squadre attrezzate, pronte a vincere, sicuramente collaudate finiscono spesso per perdere il controllo di sé e della propria stagione: è capitato quest’anno al Napoli, che pure veniva da stagioni in cui ha recitato con costanza e legittimità il ruolo di anti-Juve. Non solo: quest’anno la concorrenza per i bianconeri è aumentata, con la Lazio a lungo incollata alla squadra di Sarri in classifica, l’Inter a una distanza non certamente di sicurezza per tutto l’anno e un’Atalanta in rapida crescita – tutto questo porta pressioni e attenzioni diverse, più sofisticate. Eppure, anche nei momenti difficoltosi che non sono mancati, la Juve è rimasta costantemente sul pezzo – i punti persi per strada, nell’ultimo mese, sembrano quasi una forma di rilassamento in relazione alle frenate degli avversari – non perdendo mai la patina di squadra robusta e unita. E non è poco, soprattutto quando si cambia, soprattutto quando si cambia e si continua a vincere con la stessa onnipotenza. (Francesco Paolo Giordano)

Un Sarri nuovo, diverso, in attesa del futuro

Se vogliamo giudicare la prima stagione di Sarri alla Juventus, dobbiamo porci per forza una domanda preventiva: cosa ci aspettavamo da lui? O meglio: cosa ci aspettavamo dalla prima Juventus di Sarri? Ognuno di noi potrebbe rispondere in maniera differente, in base alla propria indole: magari era lecito pensare che il tecnico toscano riuscisse a creare fin da subito un’altra squadra-brand come il-Napoli-di-Sarri, cioè un’entità calcistica riconosciuta per la bellezza, per la modernità dei suoi automatismi di gioco; qualcun altro si aspettava che Sarri e le sue idee potessero essere completamente fagocitati, rigettati da un ambiente troppo più grande di lui, da responsabilità insostenibili, anche dai suoi stessi giocatori, perché no?, non era un’ipotesi così irrealistica; oppure alla fine Sarri avrebbe potuto piegarsi e non spezzarsi, assoggettando completamente il suo modo di lavorare alle esigenze di una squadra che deve vincere e a cui non importa il percorso che porta alla vittoria – una narrazione spesso eccessiva, a volte inesatta, considerando i grandi progressi fatti dalla Juventus in tutti gli ambiti.

Nella sua prima stagione da tecnico della Juventus, Sarri ha un record di 33 vittorie, nove pareggi e sette sconfitte in 49 gare di tutte le competizioni, in attesa delle ultime due partite di campionato e della fase finale di Champions League (Isabella Bonotto/AFP via Getty Images)

Maurizio Sarri è un allenatore molto intelligente, e quindi si è piegato un po’ e un po’ ha piegato la Juventus verso le sue idee. Ha dovuto saputo fare dei compromessi. Ha rinunciato a qualcosa di sé, ma non proprio a tutto. In realtà, non ha fatto altro che rivivere e ripetere la storia della sua carriera: l’Empoli che ha portato in Serie A e poi a una (comoda) salvezza era una squadra molto diversa dal Napoli con cui ha sfiorato lo scudetto, e lo stesso discorso vale per tutte le sue transizioni precedenti e successive, da Pescara, Arezzo, Sorrento fino a Londra, fino a Torino. Alla Juventus, Sarri ha dovuto adattarsi ai pregi e ai difetti dell’organico a sua disposizione, inventandosi soluzioni diverse rispetto al passato – suo e della stessa Juventus. Per esempio: ha perso prima Chiellini e poi Demiral, ma non ha rinunciato a tenere la difesa alta in molti frangenti di molte partite; ha dovuto valorizzare due centrocampisti centrali – Pjanic e Bentancur – molto diversi rispetto al suo feticcio Jorginho, e molto diversi anche tra loro, ma non ha cancellato l’idea di controllare il gioco attraverso il possesso palla; ha cercato il modo per far convivere Ronaldo, Dybala e un altro uomo offensivo, non sempre ci è riuscito, ma alla fine il portoghese e l’argentino sono risultati i giocatori più determinanti della rosa, non solo i più forti sulla carta.

Torniamo solo un attimo alla domanda iniziale: sì, magari l’arrivo di Sarri alla Juventus aveva acceso fantasie, aveva spalancato immaginari, del resto si trattava di un’operazione di rottura e di seduzione, con un potenziale altissimo, anzi esplosivo. Forse tutto questo potenziale non è esploso davvero, ma nel frattempo Sarri ha acquisito uno status, una credibilità diversa, maggiore. Dentro la Juventus, fuori la Juventus. Ha iniziato un lavoro e ha fatto in modo di guadagnarsi il tempo per provare a finirlo. Certe rivoluzioni vanno attese, aspettate, coltivate con calma, anche rimandate se è il caso. Per la Juventus-di-Sarri tocca ripassare, l’anno prossimo potrebbe manifestarsi compiutamente, per il momento l’abbiamo vista solo a sprazzi. Ma intanto questo ibrido, questo progetto in costruzione, sta festeggiando uno scudetto. (Alfonso Fasano)

 La Juve ha avuto bisogno di tutti (e Sarri ha saputo gestire la cosa)

A Sarri va riconosciuto anche il fatto di aver dovuto vivere e affrontare un campionato straordinario – nel senso di non ordinario, di singolare – in generale, a causa della pandemia provocata dal Coronavirus e del conseguente stop da metà marzo a metà giugno dovuto al lockdown. Per questo, soprattutto per questo, è bene sottolineare alcuni cambiamenti positivi che ha mostrato rispetto alla sua carriera, al suo vissuto. Il più evidente – e forse anche quello decisivo, perlomeno dalla ripresa del campionato in poi – è l’aver sfruttato al meglio l’intera profondità della rosa a disposizione. Che sembra una dote banale, quasi scontata, per un allenatore di alto livello, ma che dopo l’utopia di Napoli e la vittoria dell’Europa League con il Chelsea conferma una volta di più (e non era scontato) che Sarri può davvero starci, nella lista degli allenatori di alto livello. Un Sarri meno spremi-giocatori alla Sacchi e più gestore alla Capello. Alla Allegri.

Nella stagione 2017/18, l’anno dei 91 punti, del gol di Koulibaly e del secondo posto a quattro punti dalla Juventus, sono stati solo 12 i calciatori del Napoli a superare i 1.000 minuti in campionato. In questa stagione (e mancano ancora due partite) i bianconeri che hanno raggiunto questa soglia sono già 15. E da quasi tutti l’allenatore toscano è riuscito a ottenere, prima o poi, prestazioni positive. Il centravanti di riserva Higuaín, per esempio, ha deciso lo scontro diretto d’andata contro l’Inter a San Siro; l’oggetto misterioso Adrien Rabiot si è presentato come un giocatore molto diverso, molto migliore, dopo la sosta, segnando anche un bellissimo gol sempre a San Siro, ma contro il Milan.

Bonucci è il giocatore più utilizzato da Sarri in tutte le competizioni, con i suoi 3.934 di gioco; Higuaín ha realizzato dieci gol stagionali, sette in campionato, due in Champions League e uno in Coppa Italia (Miguel Medina/AFP via Getty Images)

A 42 anni e mezzo, Buffon si è meritato un altro anno di rinnovo grazie alle otto partite disputate in campionato con le quali ha superato il record di presenze in Serie A di Paolo Maldini e, soprattutto, ha garantito alla Juve 22 punti sui 24 disponibili (quando è andato in campo i bianconeri hanno sempre vinto, tranne in occasione del 2-2 interno con il Sassuolo). Matthijs de Ligt, dopo un avvio stentato e qualche fallo di mano di troppo, non ha fatto rimpiangere l’infortunato Chiellini al centro della difesa; Demiral aveva segnato a Roma prima di rompersi il crociato; Cuadrado, all’inizio dell’anno, era tutt’altro che un titolare, poi ha scalzato via via la concorrenza e oggi è il terzo giocatore con più presenze in campionato – dopo Bonucci e Cristiano Ronaldo. Per non parlare infine di Douglas Costa, il dodicesimo uomo per eccellenza, 23 presenze (e cinque assist) di cui 16 dalla panchina. (Francesco Caligaris)

Ronaldo, l’uomo decisivo in ogni caso

Questo scudetto bianconero è lo scudetto di Cristiano Ronaldo, molto più di quello dell’anno scorso. E questa è già la parte più assurda: è assurdo che ci sia bisogno di dar credito a CR7. Non c’era bisogno di un campionato con una media di un gol a partita per celebrare la sua grandezza, ma in questo 2019/20, a 35 anni, Ronaldo è riuscito a trascinare l’attacco di una squadra ancora incompleta, a volte pure poco produttiva. Una squadra che a volte ha reso al di sotto delle sue stesse aspettative, in termini di qualità del gioco prodotto, e per un potenziale offensivo mai esplorato veramente a fondo. È la Juve di Sarri, è costruita sulle sue idee e con i suoi principi, ma incapace di girare come avrebbe voluto il suo allenatore, se non per brevi momenti, per frazioni di partite.

Grazie ai suoi 31 gol solo in campionato – una quota che non raggiungeva dalla stagione 2015/16 – Ronaldo è in corsa per vincere il titolo di capocannoniere in Serie A e la Scarpa d’Oro; per entrambi i riconoscimenti, dovrà vedersela con Ciro Immobile, arrivato a 34 gol (Marco Bertorello/AFP via Getty Images)

In questa stagione Cristiano Ronaldo è stato ancora difficile da sostenere tatticamente – per le difficoltà di coinvolgerlo continuativamente in tutti gli aspetti del gioco, oltre la fase conclusiva dell’azione – e in un certo senso è uno dei motivi che ha reso più difficile, per il suo allenatore, trovare una quadratura per il suo sistema. È un problema che il portoghese si porta dietro già dall’ultima stagione a Madrid. Quest’anno, però, CR7 ha avuto quella continuità che sembrava stesse iniziando a sbiadire con l’età, e che pensavamo non fosse più alla sua portata: invece è sceso in campo in tutte le partite post lockdown; ha segnato 31 gol in campionato, e mancano ancora due partite; sono sue 20 delle 48 reti segnate dalla Juve nel 2020; da dicembre a oggi, ha giocato 22 partite di campionato e ha segnato contro 19 squadre diverse, tutte tranne Inter, Sassuolo e Udinese. Cristiano Ronaldo è ancora l’uomo più decisivo in un gioco in cui i punti di una partita sono, o meglio, dovrebbero essere, eventi “rari”. Certo, vanno pesati, perché non tutti i gol sono uguali. Ma quando si contano in queste quantità non c’è molto da discutere. (Alessandro Cappelli)

La versione definitiva, migliore, di Paulo Dybala

Paulo Dybala ha iniziato la stagione da esubero in cerca d’autore e l’ha conclusa da centro tecnico ed emotivo della prima Juventus di Maurizio Sarri. Una squadra a sua volta alla ricerca di una sua identità e che, con lui e grazie a lui, è riuscita a sopperire alle mancanze in costruzione e rifinitura che sono state alla base di alcune prestazioni non all’altezza. Arrivate, non a caso, soprattutto quando il tecnico toscano non ha potuto schierare il suo numero 10.

Paulo Dybala ha segnato 17 gol in questa stagione, undici dei quali in campionato; è l’unico giocatore nella rosa di Sarri ad aver realizzato almeno un rete in tutte le quattro competizioni giocate nell’arco di questa stagione – Serie A, Champions League, Coppa Italia e Supercoppa Italiana (Marco Bertorello/AFP via Getty Images)

Negli anni ci siamo abituati a raccontare Dybala attraverso le speculazioni sulla sua posizione in campo, gli inopportuni paragoni con Messi, la compatibilità con i compagni di reparto, la capacità di incidere o meno nelle partite che contano; in realtà questa stagione ha dimostrato come l’argentino, alla soglia dei 27 anni, abbia raggiunto l’apice del suo prime tecnico, fisico e psicologico, e quindi anche quella dimensione di fuoriclasse globale che faticavamo ad attribuirgli. Non è una questione di numeri o, meglio, non è solo una questione di numeri: Dybala, questo Dybala, è diventato un giocatore di livello assoluto e che è stato in grado di andare oltre sé stesso nel momento in cui ha imparato a esprimersi al meglio delle sue possibilità prescindendo dal sistema, dai compagni, dal dover giocare più o meno vicino alla porta in certi momenti della partita.

È diventato, cioè, quel “tuttocampista” di cui parlava Massimiliano Allegri in un modo diverso, in un modo tutto suo: facilitando la risalita del campo grazie alle sue qualità in dribbling per spezzare il raddoppio, sviluppando ulteriormente la sua dimensione associativa con la mezzala e il terzino di riferimento, migliorando le sue doti di rifinitore ben oltre il dato – il migliore della carriera – degli 11 assist in Serie A, dei 14 in tutte le competizioni. Dybala ha fatto tutto questo e ha pure ritrovato quella continuità realizzativa che sembrava smarrita, e che ha permesso alla Juventus di non dipendere unicamente dall’eccezionalità e dai record di CR7. Come Ronaldo, come De Ligt, come prossimamente Bentancur, Dybala è diventato un calciatore forte in senso assoluto, che non ha bisogno di determinate condizioni per poter decidere le partite, le stagioni. Era l’ultimo step che doveva compiere e lo ha compiuto, nella stagione forse più importante a livello individuale e collettivo. (Claudio Pellecchia)