Il momento di cambiare le regole

La lunghezza delle rose, le limitazioni dei prestiti, una migliore gestione delle plusvalenze, fino alle pause Nazionali e al numero massimo di squadre da iscrivere: è ora di parlare seriamente di modifiche strutturali al sistema calcio.

Il miglior giocatore del campionato italiano è Cristiano Ronaldo, e su questa affermazione c’è poco da discutere. Quello di secondo miglior giocatore del campionato italiano è un titolo più contendibile, perché sono almeno tre o quattro i campioni a poterlo reclamare, ma ai fini del discorso concedetemi di scegliere fra loro Paulo Dybala. Ebbene, in nove delle 26 partite giocate dalla Juventus prima dell’interruzione – più di un terzo, quindi – il secondo miglior giocatore del campionato è andato in panchina. Certo, poi è quasi sempre entrato, risultando spesso decisivo: ma in un torneo nel quale ogni settimana 220 giocatori iniziano la loro partita dal primo minuto, non soltanto il secondo per ordine di bravura dovrebbe avere il posto garantito. Diciamo che almeno dal primo al centesimo la titolarità dovrebbe essere scontata. E se quello di Dybala è un curioso paradosso dovuto alla non semplice complementarietà con Ronaldo – la stella attorno alla quale girano i pianeti – risponde a una pianificazione il fatto che i 25 giocatori della rosa della Juventus figurino praticamente tutti tra i 50 migliori della Serie A, e che fra i primi otto più pagati ben sette siano bianconeri (l’intruso è l’interista Romelu Lukaku).

La super-rosa è un “mostro” che nasce in Italia negli anni ’90 col Milan di Fabio Capello, allestito da Berlusconi e Galliani senza badare a spese in ossequio al concetto che per competere in tutti i tornei un grande club debba poter contare su almeno due squadre, col relativo turnover. Figuratevi che all’inizio di quel periodo i regolamenti consentivano l’utilizzo di tre soli stranieri. L’utilizzo, non il tesseramento, che era aperto: ogni settimana, quindi, gli allenatori delle grandi erano costretti a scegliere alcuni campioni da spedire in tribuna. Il Milan della stagione ’93/94, quello che vince sia il campionato che la Champions League, ha in rosa Boban, Savicevic, Papin, Desailly, Brian Laudrup, Raducioiu e addirittura Marco van Basten, anche se il suo è soltanto un doloroso declino verso il ritiro. A ogni partita, che sia italiana o europea, tre giocano e quattro restano a guardare.

Nel provare a disegnare qualche riforma che potrebbe migliorare l’organizzazione calcistica globale sono partito dalla composizione delle rose perché il calcio appunto ha fatto di un paradosso la sua realtà: è l’unico sport nel quale non giocano tutti i migliori ma, anzi, parecchi di loro vanno in tribuna a guardar rincorrere la palla una pletora di scarponi. A livello europeo la proporzione diventa stridente: i 250 giocatori che compongono le rose dei primi 10 club per fatturato (la Juve, unica italiana, quest’anno è decima) sono certamente fra i primi 300 del mondo, il che significa che soltanto una cinquantina di loro sfugge alla morsa dei più ricchi. Che poi “sfugge” è un termine fuorviante: quei 50 non aspettano altro che il momento in cui troveranno il loro posto al sole, altro che fuggirlo.

La concentrazione dei campioni in poche squadre, quelle che pagano di più, è l’effetto collaterale di un sistema costruito in sostanza per escludere nuovi competitoriNaturalmente la concentrazione dei campioni in poche squadre, quelle che pagano di più, è l’effetto collaterale di un sistema costruito in sostanza per escludere nuovi competitori: dei potentati entrati nel calcio negli ultimi 20 anni, e tenuti a bada almeno in parte col meccanismo del Financial Fair Play, soltanto il Chelsea è riuscito a vincere una Champions (2012), e con una dinamica che definire rocambolesca è poco. Paris Saint-Germain e Manchester City, quelle che hanno lanciato la sfida più ambiziosa, non hanno ancora raggiunto nemmeno una finale. Niente è più abituale per il calcio, soprattutto in periodi di crisi economica come questo (dovuto in parte al virus, in parte a problemi preesistenti), del parallelo con la florida Nba. Detto che anche il basket americano ha ormai derogato da alcune delle sue regole fisse, e per vincere l’anello i fuoriclasse hanno iniziato a concentrarsi (James, Bosh e Wade a Miami, Curry, Durant e Thompson a San Francisco, ancora James, Love e Irving a Cleveland), il fondamento della lega resta la competitività, la possibilità per tutti di costruire una squadra vincente. Le tre squadre appena citate per i cicli recenti in passato avevano conquistato un solo titolo (Golden State nel 1975); l’anno scorso ha vinto per la prima volta Toronto; quest’anno, quando il torneo riprenderà, tutti avranno gli occhi su Giannis Antetokounmpo, la star di Milwaukee, una franchigia il cui unico successo risale al 1971. Sappiamo bene che questa alternanza è resa possibile dalla combinazione di due fattori: il salary cap e il meccanismo del draft. Se il secondo non è replicabile in ambito calcistico, il primo è un’araba fenice continuamente invocata ma mai perseguita fino in fondo; in realtà basterebbe introdurre uno dei meccanismi correttivi della Nba, la tassa di lusso, per iniziare a riequilibrare il sistema. Se il Psg ha come budget 100 ma vuole spendere 200 per comprare Neymar, deve aggiungere una tassa – diciamo 50? – che va ridistribuita fra i club avversari. Non essendoci nel calcio le leghe chiuse bisognerebbe poi dividere quei 50 fra rivali interni (la Ligue 1) e internazionali (la Champions), e non sarebbe semplice, ma queste sono tecnicalità, in qualche modo si risolvono.

La luxury tax, invece, sarebbe una scelta politica. Non è giusto sostenere che Fifa e Uefa non abbiano fatto nulla contro la concentrazione dei campioni. Il tetto delle rose a 25 giocatori e gli otto posti destinati obbligatoriamente a quattro prodotti del vivaio del club e altri quattro dei vivai nazionali ha evitato che qualche Real Madrid forzasse la situazione acquisendo i 25 top. In quest’ottica un Foden per il Manchester City ha l’importanza di un De Bruyne perché occupa uno dei posti bloccati con la qualità di un campione preso sul mercato. Messi, Piqué e Busquets sono oro per il Barcellona anche oltre il loro enorme valore, mentre l’addio di Marchisio ha tolto alla Juve un asset strategico.

Un passo successivo in questa direzione, di cui si parla ma che mantiene fieri oppositori, è l’eliminazione o almeno la riduzione dei prestiti. Ci sono club così potenti da tenere a propria disposizione, grazie a questo meccanismo, un’altra rosa: più di venti giocatori prestati di qua e di là per controllarne la crescita se sono giovani o il recupero se vengono da una stagione infelice o accidentata. È un sistema che alimenta la corsa degli ingaggi (molti giocatori prestati ricevono parte dello stipendio direttamente dal club proprietario del cartellino, mentre dovrebbero adeguarsi a prendere di meno se entrassero in toto nel budget del club per cui giocano) e il controllo del mercato da parte delle corazzate. Inoltre, concorre alla bolla delle plusvalenze che molti denunciano come trappola mortale spostata nel futuro, ma intanto praticano perché non sanno come uscirne adesso.

Ci sono club così potenti da tenere a propria disposizione, grazie all’odierno meccanismo dei prestiti, un’altra rosaIn generale la risposta del calcio a ogni crisi è sempre la stessa: aumentare le competizioni, aumentare le partite. Fifa e Uefa, che di regola dovrebbero essere enti regolatori, sono ormai a tutti gli effetti enti organizzatori in concorrenza fra loro attorno a spazi di calendario nei quali uno vorrebbe infilarci il Mondiale per club a 24 squadre e l’altro si è già inventato la Nations League. Questa concorrenza è un problema serio che di qui a Qatar 2022 verrà probabilmente congelato dagli effetti del Coronavirus (i calendari del 2021 e del 2022 saranno a dir poco compressi, dopo la lunga interruzione di quest’anno), ma che in prospettiva andrà risolto con qualche forma di compromesso. Il mese dedicato alle Nazionali – giugno, verosimilmente – per risolvere le varie qualificazioni è un tema evergreen, ma la proliferazione delle competizioni finirà per evolverne il senso: perché devo giocare partite spesso assurde, interrompendo il flusso di campionati e coppe, se ho già a disposizione due tornei (in Europa, l’Europeo e la Nations League) da far valere come passaporto per il Mondiale? Niente di più facile che a lungo andare le qualificazioni diventino una roba da poveri, ovvero i Paesi calcisticamente arretrati. Occhio a pensarci per sempre fra i ricchi: dopo l’esclusione da Russia 2018 non lo eravamo più.

Il fantasma della Superlega incombe su questi discorsi, perché ciò che il calcio moderno cerca come l’aria per respirare sono date libere, e l’eliminazione delle quattro pause per le Nazionali (con loro raggruppamento a giugno) unita finalmente alla riduzione a 18 dei campionati domestici, sul modello Bundesliga, libererebbe la bellezza di otto date. Un tesoro inestimabile, di questi tempi. La possibilità di pianificare una convivenza fra Superlega, da rivedere nelle modalità di accesso rispetto alla bozza fatta astutamente filtrare l’anno scorso per avviare il discorso, e i campionati nazionali. Immaginando un’osmosi fra le tre coppe europee – sta rinascendo anche la terza, sì – e un meccanismo di qualificazione attraverso i campionati che valga la metà dei posti, la rigidità di certe chiusure potrebbe addolcirsi. Senza contare che una riforma dei tornei nazionali di Serie A inevitabilmente comporterebbe una ricaduta sulle divisioni inferiori: che poi il professionismo si fermi a una B divisa in due gironi, o a una B seguita da un girone unico di Serie C, di certo la dimensione di una sessantina di club è da tempo la più gettonata in termini di sostenibilità. Sarebbe ora di guardarsi negli occhi e procedere alla riforma.

Da Undici n° 33