Nicolò Barella e le promesse mantenute

Era stato acquistato per essere il perno del nuovo centrocampo dell'Inter, grazie al suo dinamismo e alle sue qualità tecniche: è andata proprio così.

Sei mesi prima di essere comprato dall’Inter, Nicolò Barella raccontava in un’intervista a Sky Sport che Dejan Stankovic è stato il suo idolo di infanzia. Lo spiegava nel modo in cui potrebbe spiegarlo qualunque altro ragazzo interista nato nel 1997, quindi cresciuto affettivamente nel lungo lasso di tempo in cui il serbo è stato una sorta di nume tutelare del centrocampo nerazzurro: «Mi riempiva gli occhi vedere i suoi gol e la grinta che metteva a centrocampo». Stankovic ha giocato nell’Inter per nove anni e mezzo, ricoprendo letteralmente qualsiasi ruolo del centrocampo. Nel periodo in cui ha rilasciato quell’intervista, Barella poteva tranquillamente dire lo stesso di sé: in quel momento si alternava tra il ruolo di mezzala e quello di trequartista nel 4-3-1-2 di Maran, ma anche con Rastelli e Diego Lopez, negli anni precedenti, si era ritrovato a passare da un ruolo all’altro con una certa facilità. Talvolta, ha giocato persino da interno di una mediana a due o da vertice basso.

Quando l’Inter ha deciso di investire su di lui una grossa somma, e di consegnargli un ruolo di primo piano nel centrocampo di una squadra costruita per tornare a vincere nel giro di poco tempo, Barella era forse già il miglior centrocampista italiano in prospettiva, ma sul suo conto pendevano alcune incognite. Un giocatore come lui, dal profilo tecnico indiscutibilmente raro ma ancora piuttosto magmatico, sarebbe riuscito ad assumere una forma abbastanza solida per incidere a un livello superiore? E come avrebbe convertito in un contesto molto più esigente – a livello tattico e non – il suo talento, dopo tre anni vissuti come giocatore più dotato del Cagliari, un ambiente in cui il suo peso specifico era così grosso da trascendere il ruolo? A un anno di distanza, ogni domanda ha ricevuto risposta e Nicolò Barella si è confermato un giocatore imprescindibile anche nel sistema di Antonio Conte.

Spesso Conte viene raccontato come un allenatore molto diverso da quello che realmente è. Il suo calcio giocato a ritmi altissimi, straripante quando ha spazi a disposizione, talvolta viene scambiato per un gioco speculativo; questo stereotipo, abbinato all’effettiva capacità dimostrata negli anni di dare spazio e far rendere oltre le aspettative anche giocatori non eccelsi tecnicamente, ha restituito un’immagine di Conte che non corrisponde alla realtà: quella di un tecnico poco incline a valorizzare i giocatori più tecnici. Il calcio di Conte, invece, è fondata sull’idea del dominio, su un’uscita bassa insistita ed elaborata e su uno sviluppo della manovra che segue ed esegue dei codici precisi. Il passo più importante di Barella – un passo a cui, per caratteristiche, è arrivato molto più equipaggiato di altri – è stato entrare in quel sistema tattico, in quei codici: «Conte mi ha migliorato nella fase tattica, nel farmi sempre trovare nella posizione giusta. Su questo è maniacale», ha detto lo scorso gennaio a Sky, «mi rimproverano di essere molto istintivo e lui mi ha limitato. Conte ti migliora in tutto, ti tira fuori il 110%».

Barella non ha più una squadra sulle spalle come a Cagliari, piuttosto ha un compito: quello di fare la cosa giusta e non la più decisiva, o sbalorditiva. Quando riceve il pallone in fase offensiva, tende a combinare coi compagni o sfruttare una delle sue skill migliori, il cambio di gioco preciso sul lato opposto del campo (2.9 completati a partita). La tecnica individuale di Barella è pulita (quest’anno in Serie A ha fatto registrare una precisione dell’83,7%, contro l’81,8% dell’anno precedente) e ben si è adattata, al netto di qualche errore, a un sistema così codificato. Nonostante ciò, la componente istintiva rimane un tratto molto marcato, nel calcio di Barella, e si rivela un valore aggiunto sia al di fuori che in funzione del sistema: le situazioni in cui l’ex Cagliari mostra la sue qualità allo stato più puro sono quelle in cui non c’è il tempo materiale per prendere una decisione, come quando un’uscita non riesce ad eludere coralmente la pressione rivale e si ritrova costretto a sbrigarsela da solo con una giocata nello stretto.

I virtuosismi di Barella si consumano in pochi centimetri, in zone cieche, tra linee laterali e difendenti quasi certi di recuperare palla, e sono elastici, sterzate e accelerazioni in spazi strettissimi, colpi da calcio di strada, a schivare il traffico. Fosse sudamericano diremmo che è una tecnica da potrero, come quella di Lautaro Martínez, un altro giocatore che non chiede né spazio né tempo in cambio delle sue giocate, anzi, preferisce non diluirle oltre l’istante. Non a caso, entrambi funzionano bene in un sistema che rende quando è al massimo dei giri: vale anche per Barella, che di impulso sa uscire palla al piede, sa cambiare gioco di prima intenzione e scaricare in maniera intelligente, anche giocando di prima.

Nella sua prima stagione all’Inter, Barella ha messo insieme 39 presenze e quattro gol in tutte le competizioni ufficiali (Alex Burstow/Getty Images)

L’istinto lo porta anche a concedersi tiri dalla distanza, a volte inventandosi gol bellissimi, come quelli contro Fiorentina, Bayer Leverkusen ed Hellas Verona. Il suo apporto in zona gol risulta ancora un po’ estemporaneo, ma l’inserimento in area è un aspetto che può ancora affinare. L’altra faccia della sua anima impulsiva, nonché la vera debolezza di Barella, è la facilità con cui compie interventi fallosi evitabili. Nella sua ultima stagione al Cagliari, anche grazie alle molte partite da trequarista all’attivo, aveva ridotto la propria media di ammonizioni a una ogni 420′, ma quest’anno, in una squadra che ha in lui il centrocampista più coinvolto in fase difensiva, è tornato nel cuore della battaglia: ha ricevuto un cartellino giallo ogni 183′ di gioco. I suoi fondamentali difensivi, il tackle, l’intensità dei raddoppi, e il modo in cui regge lo scontro fisico con giocatori più grossi di lui, sono doti che possono solo migliorare, se il tempo e l’esperienza limiteranno la sua interpretazione iper-aggressiva del ruolo.

In un sistema sempre alla ricerca di ritmi alti, un giocatore nettamente atleticamente sopra la media come Barella è diventato insostituibile. L’uscita bassa dell’Inter cerca di attirare a sé il maggior numero di avversari possibile, con l’obiettivo di generare spazi che possano essere sfruttati in avanti: quando questo accade, o ancor più banalmente, quando l’Inter ha la possibilità di muoversi in campo aperto, le sue progressioni palla al piede diventano armi letali, quasi al pari di quelle di Lukaku e Lautaro. Nel derby di ritorno di quest’anno, all’88’, con il Milan proteso alla ricerca del pareggio, Barella recupera un pallone a centrocampo e arriva in conduzione fino all’area piccola, dove calcia addosso a Donnarumma. Contro il Bayer Leverkusen, sempre nel finale, con Sánchez infortunato in campo, ha il compito di contendere in profondità al posto del cileno qualche pallone servito dalle retrovie: le sue doti atletiche generano un mismatch costante nell’ultima parte di gara, e si adattano bene a un sistema che gli impone tanto di lavorare in pressione quanto di lanciarsi in profondi ripiegamenti qualora qualcosa andasse storto.

Tre gol diversi tra loro, tutti molto belli

La prima stagione di Barella all’Inter è stata un’ulteriore conferma del valore di un giocatore su cui sia i nerazzurri che la Nazionale italiana fonderanno il loro futuro: il suo rendimento è stato costante – al netto dell’infortunio che lo ha tenuto un mese lontano dai campi a fine 2019 –  sia quando è stato chiamato a muoversi da mezzala, al fianco di Brozovic 3-5-2, sia nel doble pivote, a protezione di Eriksen nel 3-4-1-2 varato da Conte per cercare di esaltare il danese ex Tottenham.

Conte ha trovato in Barella lui un centrocampista moderno e adatto al suo calcio, a tal punto da poterne essere una sorta di ritratto, visto il modo in cui coniuga l’ottima proprietà tecnica a un dinamismo, un’intensità e un temperamento fuori dal comune. Un ritratto, ma anche un simbolo di questa prima annata – la sua, quella di Conte e della nuova Inter – per come ha saputo integrarsi in fretta in una squadra costruita in fretta, chiamata fin da subito ad andare oltre limiti e aspettative. Come, ad esempio, tornare a giocarsi l’accesso a una finale continentale dopo dieci anni dopo l’ultima volta.