Il calcio sopravvive a tutto

Per i club, diventare sostenibile è un obbligo, non più una scelta. La crisi che si è abbattuta sul sistema ha lanciato l’ennesimo allarme. Ma le squadre di calcio non sono aziende normali: in un certo senso, non muoiono mai.

Nel 2002, dopo che Vittorio Cecchi Gori utilizzò in segreto una fortuna dalle casse della squadra, la Fiorentina dichiarò bancarotta. Ci furono tentativi disperati di salvare la Viola: ma il fax di una banca colombiana per ripagare l’intero debito si rivelò, incredibilmente, una contraffazione. La catastrofe finanziaria della Fiorentina era completa: il club fu retrocesso fino alla Serie C2. Quello stesso settembre, inaugurò la nuova stagione a San Giovanni Valdarno (popolazione: 17.350). Le due squadre si erano affrontate l’ultima volta durante il Campionato toscano di guerra del 1943. Oh, come sono caduti i potenti! Eppure, venne fuori in seguito, non per molto. Cecchi Gori venne condannato a otto anni di carcere quel febbraio, ma la caduta e successiva risalita della Viola riassume bene la storia delle bancarotte nel calcio.

Le squadre sono sempre fallite. Eppure, una squadra di calcio non è come le altre imprese. Il ristorante costretto a chiudere quest’estate per la mancanza di turisti probabilmente non riaprirà più. Scomparirà, con lui, anche il suo nome: se, dopo la pandemia, un giovane imprenditore vorrà inaugurare un nuovo ristorante nello stesso punto, lo chiamerà con tutta probabilità in un altro modo. Al contrario, le squadre di calcio hanno in loro una specie di magia: sopravvivono anche dopo una bancarotta. E questo succede perché non sono, a tutti gli effetti, aziende come le altre.

Il tema delle bancarotte nel calcio è oggi estremamente rilevante. Andrea Agnelli, presidente della Juventus e della European Club Association, ha chiamato il Coronavirus «la più grande sfida che il nostro sport e la nostra industria abbiano mai affrontato». Molti club affrontano «minacce esistenziali», ha aggiunto. Sono già scomparsi i sette volte campioni di Slovacchia della MSK Zilina, e il Lokeren in Belgio. Altri li seguiranno senza dubbi. Non è niente di nuovo: nel corso della storia del calcio, un enorme numero di club – solitamente piccoli – hanno dichiarato banca- rotta. Soltanto tra il 2003 e il 2014, ci furono 35 procedimenti fallimentari nelle quattro principali divisioni inglesi, ha calcolato l’economista sportivo Stefan Szymanski, co-autore, con me, del libro Soccernomics.

Come in ogni crisi già affrontata, sono le squadre minori a essere più a rischio, per un fattore sopra a tutto: la loro economia dipende dalle partite più che dai diritti televisivi. Se il calcio continuerà a porte chiuse, le società maggiori potranno guadagnare milioni dalle televisioni, ma nelle divisioni inferiori gli incassi dello stadio contano più di ogni altra cosa, e le partite con gli spettatori saranno – aiuto! – lontane per anni, se un vaccino non verrà trovato presto. Eppure, se i fallimenti sono diffusi nel calcio, le sparizioni dei club non lo sono. Una squadra riesce a trovare, quasi sempre, un salvatore: talvolta sono i governi locali, oppure un nuovo proprietario che si offre di comprare.

In Inghilterra il trucco si chiama “phoenixing”: si lascia che la vecchia proprietà fallisca, per poi creare una nuova compagnia e metterla a capo della squadra. In questo modo, il club rinasce dalle sue stesse ceneri, come una fenice. Ci furono pianti e lutti, lo scorso anno, quando sparì per insolvenza il Bury, un club antico di 130 anni, eppure è molto più diffusa l’esperienza del loro vicino, il Bolton: dopo l’entrata in amministrazione controllata, le attività furono spostate in una nuova compagnia, per continuare felicemente a esistere. Ma anche il Bury potrebbe rinascere, come praticamente tutte le squadre inglesi un tempo scomparse, come l’Aldershot Town e l’Accrington Stanley. L’ultima squadra professionistica inglese a sparire per sempre fu il Wigan Borough nel 1931 – e anche in quell’occasione, il successore Wigan Athletic fu fondato l’anno dopo. Tutte le altre società sono riuscite a sopravvivere alla Grande Depressione, alla Seconda guerra mondiale, a recessioni, presidenti corrotti, allenatori incompetenti e varie crisi economiche. Supereranno con tutta probabilità anche il Covid-19.

Nel 2012 li Rangers Glasgow sono spariti a seguito di un fallimento, ma dopo pochi anni sono riusciti a ritornare al massimo livello nazionale ((Photo by Mark Runnacles/Getty Images)

Anche in altre nazioni i club bancarottieri – come la Fiorentina, il Parma o i Rangers di Glasgow – si sono ripresi, solitamente al prezzo di qualche anno nelle divisioni inferiori, un’esperienza che alla fine non fa altro che lucidare la leggenda del club. In Soccernomics, identificammo una dozzina, più o meno, di squadre europee che erano scomparse dal panorama calcistico professionistico durante la crisi economica iniziata nel 2008: il Salamanca, il Lorca e il Badajoz in Spagna, l’Evian Thonon Gaillard in Francia, l’Haarlem, il Veendam, l’Agovv e il Rbc Roosendaal in Olanda, il Beerschot e lo Fc Brussels in Belgio, il MyPa in Finlandia, e il Gretna in Scozia (è più facile che siano i club dell’Europa dell’Est a sparire, dove i presidenti-padroni vanno e vengono, e particolarmente comune in Ucraina, dove l’invasione russa del 2014 ha colpito duramente alcune società).

Nessuno di questi club dell’Europa occidentale è sparito per aver speso decine di milioni di euro nel tentativo di competere con squadre più potenti, anzi, erano tutte realtà piccole oppure medie (il Badajoz, in 107 anni di vita, non era mai riuscito a raggiungere la prima categoria) che hanno combattuto valorosamente decennio dopo decennio. Quando si abbatté la crisi globale, furono travolti dai loro debiti pur relativamente striminziti. L’Haarlem, per esempio, aveva un negativo di “soli” 1,8 milioni di euro quando chiuse bottega, nel 2010. Il problema è che, di salvare queste squadre, non importava a nessuno. Ad ogni modo, molti club defunti furono immediatamente rifondati in modo solo marginalmente diverso. Il Gretna nel 2008 tornò a giocare nelle divisioni amatoriali della Scozia, così come fecero il Roosendaal e l’Agovv in Olanda. L’Unionistas del Salamanca, il club successore di quello appena scomparso, gioca in terza divisione, e lo scorso gennaio è tornato a rivivere il brivido di ospitare il Real Madrid in casa, perdendo 1-3 in Copa del Rey. Insomma, la morte, nel calcio, è quasi sempre un preludio alla risurrezione. «Dobbiamo essere sostenibili», ripetono i club, secondo i più recenti cliché del mondo degli affari. Ma sono già sostenibili in un modo unici: sopravvivono anche quando dichiarano fallimento. Si può essere più sostenibili di così?

Il Lokeren, in Belgio, è una delle società fallite a causa della diffusione del Coronavirus. Andrea Agnelli ha definito questo momento «la più grande sfida che il nostro sport e la nostra industria abbiano mai affrontato» (Virginie Lefour/Belga Mag/AFP via Getty Images)

Mettiamo questo al confronto con il destino delle imprese ordinarie: lo storico dell’economia Les Hannah ha fatto una lista delle cento più importanti compagnie britanniche del 1912, e ha cercato cosa ne è stato di loro negli anni fino al 1995. Circa la metà – 49 – non esistevano più. Cinque avevano dichiarato bancarotta, sei furono nazionalizzate, e 37 acquisite da altre società. E anche tra quelle sopravvissute, molte avevano subito conversioni o si erano spostate in luoghi diversi da prima. Quello che ha reso queste compagnie non-calcistiche così instabili, sopra a tutto, è stata la competizione. Certamente esistono cose come la lealtà verso il brand, ma quando spunta un prodotto migliore, solitamente, la maggior parte delle persone passerà a quello. Le aziende normali sono costrette a innovare costantemente, per sopravvivere. Devono affrontare ostacoli in continuazione: non soltanto la concorrenza, ma anche il cambio nei gusti dei consumatori, le nuove tecnologie che rendono obsoleti interi comparti industriali, l’arrivo di beni più economici dall’estero, le interferenze governative, le recessioni, investimenti eccessivi o pura e semplice sfortuna.

Al confronto, una squadra di calcio è immune da praticamente tutto questo:
• Un club che non è in grado di sostenere la competizione potrà essere retrocesso, ma sopravvivrà a un livello inferiore.
• Alcuni tifosi perderanno interesse, ma le squadre di calcio hanno radici regionali: una squadra scarsa vedrà il suo bacino stringersi, ma non scomparire.
• La “tecnologia” del calcio non può diventare obsoleta, perché la tecnologia è il gioco stesso. Alla peggio perderà popolarità.
• I rivali stranieri non possono entrare nel mercato con del calcio a un prezzo più basso. Le regole dello sport proteggono i club nazionali, impedendo a squadre straniere di competere in campionati non “loro”. I governi non nazionalizzeranno il calcio.
• Le squadre spesso fanno investimenti eccessivi, eppure quasi mai questo comporta la distruzione del club – piuttosto la fortuna personale dell’investitore. Alla peggio, c’è la retrocessione.
• Gli incassi di un club diminuiscono durante le crisi, come quella in corso, ma è sempre possibile sopravvivere con meno. Se la pandemia dimezzerà gli stipendi dei calciatori, beh, ci farà tornare indietro ai livelli di appena un decennio fa, quando i calciatori sembravano comunque discretamente pagati.

Pochi giorni fa, l Borussia Dortmund ha ufficializzato il bilancio della stagione 2019/20: il club tedesco ha chiuso in perdita (-44 milioni) per la prima volta in dieci anni, a causa dei mancati introiti dovuti alla pandemia (Ina Fassbender/AFP via Getty Images)

Quando una squadra dichiara bancarotta, e rifiuta di pagare i debiti contratti, chi ci perde non è solitamente la società stessa, ma i suoi creditori. Solitamente, non vengono mai ripagati. Ma fortunatamente, la società può continuare a mantenere anche i meno redditizi tra i club sportivi senza troppi problemi. Anche i più grandi sono delle aziende di dimensioni appena modeste: nel 2015/16 il fatturato del Manchester United toccò la cifra di 581 milioni di sterline, la più alta di ogni club nella storia del calcio inglese. Eppure, in una classifica di fatturato, lo United sarebbe soltanto al 74esimo posto tra tutte le aziende della Finlandia, ha calcolato l’analista finanziario finlandese Matias Möttöla. La maggior parte delle squadre a rischio bancarotta hanno dei fatturati simili a quelli di un supermercato. Non di una catena: di un solo singolo negozio.

Se messe a confronto con l’amore che riescono a generare, le perdite risibili di questi club importano poco e niente. Sono imprese minuscole ma brand estremamente resistenti. I creditori non si azzardano a spingere troppo. Nessuna banca ha il coraggio di dire: “Basta, spegniamo le luci: la squadra locale vecchia di oltre cento anni chiude oggi”. La società manda giù i debiti e lascia che anche i club di Serie C2 combattano ancora. In un certo senso, sono troppo piccoli per fallire.

Da Undici n° 33