Perché le proteste antirazziste dello sport americano sono partite dai Milwaukee Bucks

Il ferimento del 29enne afroamericano Jacob Blake da parte della polizia ha fermato lo sport americano.

Nella bolla di Orlando i Milwaukee Bucks e la Nba hanno fatto la storia dello sport. E non solo dello sport americano. Nella notte tra il 26 e il 27 agosto, la squadra di Giannis Antetokounmpo, attesa da gara-5 dei playoff contro Orlando, ha deciso di non scendere in campo per protestare contro la violenza e la discriminazione della polizia statunitense nei confronti dei neri e di altre minoranze. Domenica 23 agosto, Jacob Blake, 29enne afroamericano di Kenosha, nel Wisconsin, è stato colpito alle spalle da sette colpi di pistola sparati da un agente in servizio. Nel video e nelle ricostruzioni arrivate dagli Stati Uniti, viene raccontata la gravità dei fatti: Blake era disarmato e stava rientrando nella sua automobile, in cui c’erano anche i suoi figli; uno degli agenti di polizia presenti sul posto, intervenuti a causa di una rissa che lo stesso Blake stava cercando di sedare, gli ha sparato più volte alla schiena. Ora Jacob Blake è in ospedale, e in ogni caso dovrebbe essere destinato a rimanere paralizzato dalla vita in giù. Nel frattempo il suo caso ha riacceso le proteste del movimento Black Lives Matter negli Stati Uniti, con il replay delle manifestazioni già esplose due mesi fa a seguito di un evento analogo: la morte di George Floyd, sospettato afroamericano assassinato a Minneapolis durante un’operazione di polizia.

I Bucks si sono rifiutati di scendere in campo pochi minuti prima della palla a due, quando erano ancora negli spogliatoi. I giocatori di Orlando si sono uniti ai loro avversari perché, evidentemente, condividevano e condividono le istanze della loro protesta. In questo modo, si è creato un precedente unico nella storia della Nba. Prima di oggi, infatti, solo una volta due squadre erano decise a boicottare una gara: nel 2014, i giocatori dei Los Angeles Clippers e dei Golden State Warriors hanno valutato l’ipotesi di non scendere in campo per manifestare apertamente contro l’allora proprietario dei Clippers, Donald Sterling, che aveva rilasciato alcune dichiarazioni razziste. Alla fine sono hanno deciso di giocare dopo che il commissario Nba Adam Silver aveva annunciato che Sterling sarebbe stato bandito a vita dalla lega. Stavolta, però, la protesta è stata portata avanti in maniera più convinta, e ha coinvolto anche tutte le altre squadre di Nba impegnate nei playoff e molte altre franchigie delle varie leghe professionistiche americane: Oklahoma City Thunder, Houston Rockets, Portland Trail Blazers e Los Angeles Lakers non andranno in campo oggi, come da calendario; anche molte partite di WNBA, MLS e MLB sono state rinviate.

Non è un caso che questa enorme, inedita manifestazione di protesta abbia avuto origine nello spogliatoio dei Bucks. C’entra qualcosa la geografia, ovviamente: la città dove è avvenuto il ferimento di Jacob Blake dista solo 40 miglia da Milwaukee. Ma c’è anche un altro aspetto importante, forse ancora più importante, da tenere in conto: nei Bucks gioca Sterling Brown, guardia 25enne originaria dell’Illinois. Il 26 gennaio 2018, Brown ha avuto un’esperienza simile a quella di Blake e Floyd con la polizia americana: durante un controllo fuori una farmacia Walgreens di Milwaukee, è stato spinto a terra, picchiato e stordito con una pistola taser da alcuni agenti in servizio. Tutto è stato documentato in un video che poi è finito anche su internet, e che ha costretto il dipartimento di polizia a scusarsi pubblicamente con Brown. Il giocatore dei Bucks ha successivamente intentato una causa e ha rifiutato l’offerta di un accordo economico da parte della città di Milwaukee.

Il racconto di questo episodio è in una confessione autografa pubblicata da The Players’ Tribune, in cui lo stesso Brown ha spiegato che «la mia battaglia vale più dei soldi che mi hanno offerto come settlement agreement. Voglio che i poliziotti mostrino rispetto per tutti i cittadini e siano ritenuti responsabili delle loro azioni quando sono in servizio». È evidente che il sentimento di Brown sia condiviso anche dai suoi compagni di squadra: dopo la decisione di non scendere in campo, i giocatori dei Bucks hanno rilasciato un comunicato in cui dicono di «non potersi concentrare sul basket», perché «da tempo viene chiesto un cambiamento nel comportamento delle forze dell’ordine, ma non c’è stata alcuna azione concreta». In seguito, anche il management della squadra ha diramato una nota ufficiale in cui si dice concorde con le proteste dei giocatori.