Zaniolo siamo noi

Perché il secondo infortunio al ginocchio del giovane centrocampista della Roma ha intristito tutti.

Quest’estate ho comprato un cappellino dei Chicago Cubs. Non sono un tifoso o un appassionato di baseball: l’ho fatto semplicemente perché mi piace la storia di questo club, che dopo aver vinto le World Series nel 1908 ha dovuto aspettare 108 anni per vincerle di nuovo nel 2016, l’attesa più lunga di tutto lo sport americano, e in quei 108 anni ha perso in tutti i modi possibili e immaginabili, compresa quella volta in cui un tifoso si sporse dalla tribuna e prese al volo una pallina anticipando un giocatore della sua squadra (che avrebbe eliminato un avversario) durante una partita dei playoff.

Perché proviamo così tanta empatia per chi è perseguitato dalla sfortuna? Lunedì sera ho seguito solo distrattamente Olanda-Italia, ma dopo l’infortunio di Zaniolo ho sperato che non si trattasse un’altra volta del crociato. Ho aspettato la fine della partita e ho alzato il volume della televisione per ascoltare l’intervista al medico della nazionale, che ha parlato di «un’importante distorsione», e martedì mattina mi sono scoperto triste come tutti gli appassionati e gli addetti ai lavori di calcio in Italia perché sì, Nicolò Zaniolo, uno dei più grandi talenti azzurri dell’ultima generazione, si è rotto il secondo ginocchio in nove mesi. Prima il destro e adesso il sinistro. Era una tristezza diversa, del tipo che si prova quando collidono le sfortune della quotidianità con i mondi apparentemente irraggiungibili degli atleti professionisti. Chissà quando ritornerà, chissà soprattutto come ritornerà.

In questi giorni si sta correndo anche il Tour de France. Al momento, a causa della pandemia, non si sa neanche se si riuscirà a terminare la corsa, ma c’è una certezza: ancora una volta non vincerà Thibaut Pinot. L’anno scorso si era ritirato in lacrime, abbracciato da un compagno di squadra, per un infortunio alla gamba. Quest’anno è caduto durante la prima tappa, ha forti dolori alla schiena e dopo una settimana ha già oltre mezz’ora di distacco dalla maglia gialla. Era uno dei favoriti, invece ha dichiarato che il Tour 2020 potrebbe rappresentare una «svolta» nella sua carriera: basta pressioni, basta sofferenza, basta delusioni. Pinot è molto amato in Italia, sebbene sia francese, e Repubblica lo ha definito un «corridore da romanzo».

La sfortuna, nello sport, alimenta il mito (Van Basten, Ronaldo, Zanardi, Redondo, Derrick Rose, eccetera) e accresce la simpatia. Tutti abbiamo scherzato sulla vittoria quasi ridicola di Steven Bradbury nello short track alle Olimpiadi invernali del 2002, ma chi conosce la sua storia personale (aveva già vinto delle medaglie ai Mondiali, poi nel 1994 si tagliò l’arteria femorale con la lama di un pattino rischiando di morire dissanguato e nel 2000 ebbe un altro grave infortunio al collo durante un allenamento) ironizza un po’ di meno e lo stima un po’ di più. Perché l’empatia è prima di tutto immedesimazione: non sarò mai come Zaniolo, però guarda Zaniolo com’è umano, come mi somiglia, come soffre, quanto è sfigato. Hashtag: storyofmylife.

Zaniolo è come noi e allo stesso tempo è uno dei più forti calciatori al mondo della sua età. Venti minuti prima di farsi male, nella partita contro l’Olanda, aveva sfiorato il gol con una torsione di sinistro dall’elevato coefficiente di difficoltà, perché il cross dal fondo di Spinazzola era un filo lungo e lui ha dovuto fare due brevi passi all’indietro prima di colpire il pallone. Anzi: paradossalmente l’impatto è stato troppo pulito, quasi perfetto. Se avesse smorzato la palla, sarebbe uscito un tiro più debole ma forse diretto verso la porta. Zaniolo è l’italiano più giovane ad aver segnato una doppietta in Champions League, alterna potenti e imprendibili coast-to-coast come il gol segnato quest’estate alla Spal a eleganti e irriverenti tocchi di fino come il cucchiaio di due stagioni fa al Sassuolo, è il nuovo simbolo della Roma (e di Roma, pur non essendoci nato) che con lui spera di tornare a vincere un trofeo che manca dal 2008.

Anche Zaniolo martedì era triste, quasi rassegnato come Pinot. La Gazzetta dello Sport ha scritto che ha lasciato Villa Stuart, dove ha avuto la conferma della seconda rottura del crociato, con «lo sguardo cupo e in silenzio». Se lo scorso gennaio, dopo l’infortunio contro la Juventus, aveva pubblicato su Instagram un inequivocabile: «Vi giuro… tornerò più forte di prima», questa volta è rimasto su un più vago e malinconico «tornerò presto». L’empatia ritorna tutta nella firma finale, «Nicolò», mai messa nei 172 post precedenti. La sfortuna trasforma Zaniolo, il calciatore milionario già a vent’anni, appartenente alla realtà parallela e lontanissima degli sportivi, e lascia spazio, davanti ai nostri occhi, proprio a Nicolò, un ragazzo nato nel 1999, più giovane di mio fratello minore, che dovrà passare altri mesi, ogni giorno, tra ospedali e palestre.

Nel 2007 Eddie Vedder, il cantante dei Pearl Jam, scrisse una canzone in cui immaginava il momento del ritorno alla vittoria dei Chicago Cubs alle World Series: «And when the day comes with that last winning run / And I’m crying and covered in beer / I’ll look to the sky and know I was right / To think someday we’ll go all the way». Un giorno ce la faremo, e così è stato. Non è sicuro, ma magari un giorno ce la farà anche Zaniolo, ce la farà Pinot, magari ce la faremo anche tutti noi.