Piccolo elogio degli stadi vuoti

Il Ferraris di Genova fotografato durante la quarantena, immerso nel silenzio del quartiere di Marassi, in cui si staglia ma è, allo stesso tempo, perfettamente inserito. Un elogio all’opera di Vittorio Gregotti, scomparso in quei giorni proprio a causa del Coronavirus.

Parliamo sempre degli stadi pensandoli pieni. Dopo il lockdown imposto per limitare il diffondersi di Covid-19, laddove i campionati hanno iniziato a tornare a giocarsi – in Germania, prima, poi anche in Italia – si sono rammaricati, i media e gli spettatori delle cose sportive, per l’assenza di pubblico. Quanto è strano giocare a calcio senza le persone lì a guardare, con i seggiolini vuoti, e i rumori del pallone e le grida sul campo che rimbalzano contro le strutture architettoniche e rimbombano. Per i calciatori è così diverso, una volta entrati nella trance agonistica della partita, giocare senza pubblico?

Forse la vuotezza riesce a modificare l’agonismo tanto quando il sold-out, il silenzio va a intaccare le energie mentali in un modo opposto rispetto alla carica vocale di decine di migliaia di persone. Giocare in casa potrebbe essere allora un fatto che si ritorce contro alla squadra ospitante: il vuoto e l’assenza a incutere timore agli undici che dovevano in realtà sfruttare il fattore campo, come se quella casa vuota fosse piena di fantasmi. Forse per evitare tutto questo, con una decisione lungimirante, il Real Madrid ha annunciato che, con la Liga ricominciata a porte chiuse, lo stadio di casa non sarebbe stato il Bernabéu ma il piccolo impianto da 6mila posti di Valdebebas.

Ma gli stadi sono interessanti anche se vuoti, in un modo che valorizza maggiormente l’architettura, e certi aspetti che, qualche decennio fa, sarebbero stati riassunti sotto l’espressione genius loci. Uno spot di Nike del 2011 mette in scena questo: fu girato alla Bombonera, durante un allenamento del Boca. I giocatori si scaldavano, sugli spalti solo qualche inserviente impegnato a pulire gli spazi tra i seggiolini. Nessuno era stato avvertito. «Scusate se vi interrompo», dice lo stadio, attraverso gli altoparlanti, «finalmente posso parlarvi senza tutta quella gente attorno». Riquelme, Palermo, Medel e gli altri sono straniti. La telecamera mostra gli spogliatoi, le postazioni dei telecronisti, le scale per salire agli anelli più grandi, le ringhiere arrugginite. «Qui non si gioca a calcio», dice sempre più enfatica la voce dell’impianto, «qui si lotta, si soffre per questi colori». Non sono i tifosi a dirlo: è lo stadio, la vera identità di un club.

Lo stadio di Marassi, a Genova, qui ritratto da Matteo de Mayda, è unico in Italia, e famoso in tutto il mondo. L’abbiamo scelto come simbolo perché, nei primi giorni del 2020, proprio a causa del virus, è morto Vittorio Gregotti, il grande architetto che firmò il progetto di ricostruzione del 1987-1989, in tempo per i Mondiali del 1990. Piemontese, ma laureato in architettura al Politecnico di Milano nel 1952, Vittorio Gregotti ha iniziato la sua carriera lavorativa nello studio BBPR, e collaborato inizialmente con Casabella proprio negli anni della direzione di Ernesto Nathan Rogers, suo maestro.

Fonda il suo studio Gregotti Associati International nel 1974, lo stesso anno in cui diventa direttore delle arti visive alla Biennale di Venezia (fino al 1976). Tra le sue opere principali, oltre allo stadio Ferraris ricostruito da zero, tribuna per tribuna, nel 1987, l’Università della Calabria, il quartiere residenziale nell’area ex-Saffa a Venezia, il quartiere Bicocca a Milano, nell’area Pirelli.

Il Ferraris è uno stadio all’inglese contemporaneo, perfettamente declinato nel contesto urbano in cui sorge, in cui gli angoli vincono sulle curve e le rotondità tipiche di molti stadi fatti oggi con lo stampo. È il primo stadio in cui feci una trasferta, da adolescente liceale, e per le misure di sicurezza allora imponenti venimmo lasciati nell’impianto che andava svuotandosi per oltre un’ora dalla fine della partita. Mi innamorai del Ferraris così, abbandonato in quel silenzio, e ci tornai più volte, anche a vedere il derby cittadino. Si scopre un’intimità unica negli stadi, nel vederli vuoti dal dentro. Come una nudità, un segreto che poi si custodirà per anni.

Il vuoto di San Siro, invece, lo ammirai alcuni anni dopo, al contrario: prima di un derby contro l’Inter, entrai con alcuni amici nel primo pomeriggio per aiutare la curva a sistemare le plastiche che sarebbero poi diventate la coreografia di quella sera. Ora dopo ora le tribune si sarebbero riempite, fino a diventare lo spettacolo unico che sono sempre i derby di Milano. Non ne fui disturbato: gli spalti vuoti, il silenzio e gli echi, la maestosità dell’impianto deserto erano ormai diventati una benedizione o un’apparizione. Certi stadi, anche se non più in uso, non andrebbero abbattuti. Funzionerebbero come le abbazie britanniche abbandonate, diventate elementi del paesaggio, o come i castelli europei decaduti e visitati come grandi scheletri di cetacei. «Gli edifici sovradimensionati sono concepiti in vista della loro futura esistenza di rovine», diceva Jacques Austerlitz nell’omonimo romanzo di W.G. Sebald. Lasciamoli così, vuoti e aperti.

Da Undici n° 33
Con il servizio fotografico che vedete in queste pagine, Matteo de Mayda ha vinto REFOCUS – Open call fotografica sul territorio italiano all’epoca del lockdown, contest promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del MiBACT, in collaborazione con Museo di Fotografia Contemporanea e Triennale Milano.