Tre cose sulla seconda giornata di Serie A

La forza di Atalanta e Inter, le prime contraddizioni della Juve.

È difficile individuare i limiti dell’Atalanta

L’Atalanta è scesa in campo sabato alle 15, poche settimane dopo una sconfitta bruciante, forse immeritata, contro il PSG nei quarti di finale di Champions League; è scesa in campo senza Ilicic, con un difensore nato il primo gennaio del 2000 (Sutalo) nella formazione titolare e con un assetto iper-offensivo (Gómez alle spalle di Zapata e Muriel). Dopo pochi minuti, la squadra di Gasperini è passata in svantaggio per effetto di un gol segnato da Belotti. Moltissime squadre italiane ed europee, la stragrande maggioranza, avrebbero risentito almeno un po’ di tutte queste situazioni negative. Non l’Atalanta di Gasperini, che a fine partita ha festeggiato una vittoria comoda, netta, pure ridotta nel punteggio (2-4) considerato il distacco di forza percepita rispetto al Toro di Giampaolo. Ma non è “colpa” dei granata, o almeno non solo: la squadra bergamasca, infatti, restituisce questa sensazione di superiorità (fisica, tattica, tecnica) in quasi tutte le sue partite, da alcuni anni a questa parte. La cosa su cui riflettere è che Torino-Atalanta si è giocata nelle condizioni particolari di cui sopra, riguarda il fatto che sia stata la prima partita di una nuova stagione, che Gasperini sta continuando a manipolare e migliorare la sua creatura: il nuovo schieramento con due attaccanti di ruolo è stato supportato benissimo, l’assenza di Ilicic si avverte solo in alcuni momenti della partita, poi ci sono ancora i nuovi acquisti (Miranchuk e Lammers) da inserire, e ieri un giocatore fondamentale come Pasalic ha iniziato in panchina. In virtù di tutto questo, diventa difficilissimo – se non impossibile – individuare i limiti dell’Atalanta, il perimetro nel quale potrà muoversi la squadra di Gasperini. I numeri degli ultimi campionati e dell’ultima Champions dicono che sarebbe bastato poco, pochissimo, perché i bergamaschi potessero candidarsi apertamente per la vittoria di un grande titolo. Ecco, ora è giusto ribaltare la domanda: esiste un solo motivo per cui l’Atalanta non dovrebbe essere una delle maggiori aspiranti allo scudetto?

La forza della nuova Inter, oltre la panchina lunga

L’immagine dei giocatori subentrati dell’Inter – Nainggolan, Hakimi, Sánchez, Vidal – che esultano per la vittoria in rimonta sulla Fiorentina è abbastanza eloquente. Soprattutto se pensiamo al fatto che Chiesa e Ribery, i migliori in campo della squadra viola e non solo di quella viola, fossero seduti in panchina dopo aver indirizzato la partita – per necessità, ha spiegato Iachini – ed erano stati sostituiti da Vlahovic e Lirola. Il 4-3 di San Siro, però, non è maturato per la differenza di profondità tra le due panchine, o almeno non solo: c’entrano qualcosa anche la fortuna, l’inesperienza della squadra viola nella gestione degli istanti dopo il pareggio di Lukaku e poi i cambiamenti apportati da Conte al suo schema iniziale. Certo, le scelte del tecnico nerazzurro – l’ingresso di Sánchez alle spalle di Lukaku e Lautaro, la rinuncia momentanea alla difesa a tre, l’utilizzo di Hakimi come esterno di una linea a quattro – sono state attuate perché c’erano delle alternative in più rispetto allo scorso anno, ma la realtà è più sfumata: già a inizio partita l’Inter si era schierata in un modo più audace, con Eriksen e Perisic in un centrocampo a cinque, con Kolarov terzo centrale. Insomma, le modifiche urgenti fatte da Conte nella parte finale ripresa sembrano essere il frutto in più di un cambiamento in atto, un cambiamento necessario dopo i problemi di prevedibilità accusati nella scorsa stagione. E poi va sottolineato il carattere dei nerazzurri, la loro capacità di rimanere attaccati alla partita nonostante la grande prestazione della Fiorentina, una dote da grande squadra che è il necessario preludio a rimonte e vittorie così importanti, così sofferte, così indicative rispetto alla forza di un gruppo che sembra davvero pronto, per qualità e vastità di soluzioni, ma anche per consistenza emotiva, ad avere un ruolo da protagonista in tutte le competizioni.

Edin Dzeko è l’avversario che sarebbe servito tantissimo a Pirlo

La doppietta di Cristiano Ronaldo ha salvato Andrea Pirlo dalla prima sconfitta stagionale, in una serata in cui la Roma ha certamente fatto una bella figura contro una Juventus piuttosto ondivaga e a corrente alternata. Il portoghese condiziona tantissimo in attacco, nel bene e nel male: ovvio che, numeri e prestazioni alla mano, i benefici superino di gran lunga qualsiasi altra considerazione. Non è andato benissimo invece Alvaro Morata, alla sua prima dopo il ritorno in bianconero: Pirlo ha schierato il centravanti spagnolo proponendo così una formazione ancora più offensiva rispetto a quella vista sette giorni prima contro la Sampdoria. Come detto, Morata non ha brillato: poche palle toccate, poco dialogo con i compagni, nessun’azione pericolosa, e Pirlo lo ha dovuto sostituire anzitempo per provare a ravvivare la manovra offensiva (come effettivamente è stato con l’ingresso di Douglas Costa). Ironia della sorte, Morata ha preso idealmente il posto di quell’Edin Dzeko che, sull’altro fronte, è stato uno dei migliori in campo: non fosse stato per due incredibili errori sotto porta, il bosniaco sarebbe certamente stato il man of the match. Come ammesso dal ds Fabio Paratici prima del match (ma ormai è il segreto di Pulcinella), l’accordo tra Dzeko e la Juve era fatto, cancellato soltanto dal diniego in extremis di Milik di trasferirsi in giallorosso. Probabilmente, la prestazione di Dzeko aumenta i rimpianti: guardando la nuova Juve di Pirlo e le caratteristiche di gioco del bosniaco, è difficile non pensare che il matrimonio sarebbe stato perfetto per entrambi. Morata adesso ha un doppio fardello sulle spalle: il primo è trovare un’affermazione personale che fin qui ha solo accarezzato, il secondo è quello di non far rimpiangere il mancato arrivo di Dzeko, con le sue peculiarità e le sue risorse.