È questo il vero Calhanoglu?

Di certo è il migliore che abbiamo visto finora in Italia, grazie a un Milan che ha iniziato a giocare come piace a lui.

Da gennaio 2020 a oggi, Zlatan Ibrahimovic ha fagocitato completamente il racconto del Milan. È inevitabile, del resto parliamo di una delle figure più ingombranti del calcio contemporaneo, di un accentratore, di un giocatore fortissimo e naturalmente egocentrico, di un personaggio che professa il culto della propria personalità, in campo e fuori. Forse era proprio quello che serviva al Milan: grazie alle sue qualità, alla sua attitudine, Ibra si è caricato sulle spalle tantissime responsabilità, ha tolto pressione a Pioli e ai compagni, come se fosse un totem e intorno a lui ci fosse una tribù indiana che invoca la pioggia, un miglioramento del raccolto o la manifestazione di qualsiasi altro fenomeno naturale; così, nel frattempo, i giovani che compongono la rosa rossonera – a Crotone, senza Ibrahimovic, Pioli ha schierato un undici titolare dall’età media di 23,18 anni – sono riusciti a individuare il loro potenziale, a svilupparlo.

È un discorso che vale anche dal punto di vista tattico: il gioco di Ibra si è incastrato perfettamente con le idee di Pioli, il tecnico ha avuto il merito di comprendere come sfruttare bene le qualità dello svedese, anche in funzione di quelle dei suoi compagni, e ora ogni elemento sembra essere nel posto giusto. Ricondurre tutto a Ibrahimovic, solo a Ibrahimovic, è però eccessivo. Ed è pure ingeneroso. Perché una squadra che ha Ibrahimovic e poco talento non mette in fila 17 risultati utili consecutivi in tutte le competizioni, come non succedeva ai rossoneri dal 1996. Deve esserci qualcos’altro, e infatti c’è qualcos’altro: l’intelligenza di Pioli, a cui abbiamo già fatto riferimento; la crescita esponenziale di Bennacer, la fisicità di Kessié, la corsa perpetua e intelligente di Rebic. E poi, soprattutto, il ritorno di Hakan Calhanoglu ai fasti di cinque anni fa, quando era al Bayer Leverkusen ed considerato uno dei giocatori più divertenti e potenzialmente determinanti del calcio europeo.

La storia di Calhanoglu in Italia è una storia di equivoci: quando arriva al Milan, nel 2017, è uno dei tantissimi acquisti fatti da Yonghong Li per provare a mascherare la scarsa solidità finanziaria del suo progetto, un pericoloso gioco giocato al contrario che fece solo (enorme) confusione – primo equivoco. Tutti si aspettavano che Calhanoglu fosse un giocatore in grado di decidere molte partite fin da subito, ma in realtà era un atleta da ricostruire, anche perché la sua terza stagione vera al Bayer Leverkusen non era stata brillante come le prime due, soprattutto a causa di una brutta storia di precontratti firmati e non rispettati che gli costarono una squalifica di quattro mesi – secondo equivoco. Il Milan di Montella, di Bonucci e di Calhanoglu era una squadra pensata e costruita, tra l’altro anche piuttosto male, per giocare un calcio di possesso, paziente, anche raffinato se vogliamo, per questo furono completati gli acquisti di un regista come Biglia, di un attaccante associativo come André Silva – terzo equivoco.

Ecco, il terzo equivoco è stato fatto dilatare nel tempo con una scientificità che ha rasentato la crudeltà: Montella è stato esonerato a fine novembre 2017, dopo di lui sono arrivati Gattuso e Giampaolo. Sono tutti allenatori che amano giocare in un campo piccolo, per cui il possesso palla è uno dei mezzi più efficaci – se non il più efficace in assoluto – perché possano determinarsi i gol, i risultati positivi. Ognuno di loro avrà fatto questa scelta perché credeva fosse la migliore soluzione per i giocatori che aveva a disposizione, ma di certo questa stessa scelta ha finito per penalizzare Calhanoglu, l’ha condannato a fare cose che sa fare meno bene di altre, a giocare in un contesto non proprio ideale per esprimere le sue qualità.

In realtà ci sono stati alcuni sprazzi positivi di Calhanoglu durante l’era-Gattuso: qualche buona partita da esterno a piede invertito, nella prima stagione, poi alcune prove incoraggianti da trequartista nel 4-2-3-1 utilizzato a volte durante il secondo anno. Gattuso «mi ha detto che avevo la testa piena e che dovevo liberarla, e questo mi ha reso più forte», spiegava Hakan; lo stesso tecnico calabrese sosteneva che Calhanoglu «ha bisogno della carezza o della cinquina, di sentirsi importante». Il punto è che Calhanoglu non poteva essere né libero né tantomeno importante, nel senso di valorizzato, in un gioco lontano dalle sue caratteristiche – tra l’altro in una squadra che faticava a esprimersi bene almeno nella metà delle partite. E il problema non era di ordine psicologico: semplicemente, il giocatore ammirato nel Bayer Leverkusen non poteva manifestarsi perché in realtà poteva farlo solo in spazi larghi e aperti, voleva sguazzare nel disordine solo apparente di una squadra che attacca velocemente, e soprattutto in verticale.

Nelle sue tre stagioni al Milan, Calhanoglu ha messo insieme 133 presenze in competizioni ufficiali, con uno score di 26 gol realizzati (Marco Bertorello/AFP/Getty Images)

Ovviamente Pioli non ha iscritto il Milan alla Bundesliga, un torneo in cui più o meno tutte le squadre giocano in questo modo, e non ha ha imposto ai colleghi di Serie A di praticare un calcio fondato sulla gestione aggressiva delle transizioni. Però intanto ha deciso di fare alcune cose con il Milan, e ha finito per dare ciò che serviva a Calhanoglu: oggi i rossoneri preferiscono attaccare in un campo più lungo, con uno stile più verticale, e allora Calhanoglu può finalmente esprimere al massimo le sue peculiari qualità creative, la sua conduzione veloce, i suoi passaggi ficcanti. Il ruolo di trequartista del 4-2-3-1 gli ha aperto ulteriormente un campo già dilatato dall’atteggiamento della squadra, in quello slot Calhanoglu non è compresso nei mezzi spazi a destra o a sinistra, come una mezzala, né tantomeno deve presidiare la fascia laterale, come un esterno offensivo. E poi c’è Ibrahimovic, che libera gli spazi davanti a Calhanoglu e così Calhanoglu si prende tutti gli spazi che può, si muove in tutte le direzioni per creare gioco offensivo, mentre a pochi metri da lui sfrecciano Rebic, Castillejo, Theo Hernández, Saelemaekers, tutti giocatori dinamici che Calhanoglu può servire con i passaggi che sa fare meglio: quelli sulla corsa, non quelli sulla figura. Si tratta di un concetto chiave: spesso il pubblico di San Siro ha contestato a Calhanoglu un’eccessiva lentezza nelle giocate. Erano critiche giustificate solo parzialmente, perché ignoravano il contesto: la squadra rossonera, infatti, praticava un possesso ragionato, in cui un giocatore come Calhanoglu – abituato a smistare la palla in maniera rapida, a servire compagni che attaccavano gli spazi, piuttosto che occuparli – non poteva trovarsi bene, allora i suoi passaggi dovevano essere molto più calibrati di quanto lo siano ora, e finivano per arrivare al termine di una conduzione troppo lunga, troppo articolata.

Resta il fatto che la Serie A non è la Bundesliga-bis, e quindi molte squadre difendono in maniera meno intensa, meno aggressiva. Allora Calhanoglu in alcune partite deve rimodulare il suo gioco, e in qualche modo ha imparato a farlo: è sempre al centro della manovra, la sua qualità di calcio lo rende uno degli hub preferiti dai compagni perché il pallone possa essere spostato in maniera precisa, soprattutto verso gli esterni; certo, questo tipo di regia è meno efficace rispetto alle partite in cui Calhanoglu può esercitare il gioco istintivo e diretto che gli riesce meglio, ma l’esperienza accumulata – ha computo 26 anni compiuti a febbraio, e già nel 2011 era titolare nel Karlsruhe, nella seconda divisione tedesca – e la sua ottima tecnica di base lo rendono un elemento prezioso anche per questa situazione alternativa.

Un po’ di cose belle che Calhanoglu sa fare quando può giocare in verticale, e anche su palla da fermo

Il punto è proprio questo: il Milan, oggi, è una squadra che conosce e pratica il gioco che piace a Calhanoglu, che lo mette in condizione di essere determinante – un livello nettamente superiore rispetto a prezioso: nell’anno solare 2020, infatti, Calhanoglu ha segnato 12 gol e servito 10 assist decisivi. Non è un incastro che riesce sempre, o che riesce al primo colpo, nonostante stiamo parlando del calcio ai massimi livelli: Calhanoglu ha caratteristiche tecniche e fisiche particolari, inoltre è stato forgiato per muoversi e per interpretare il gioco in un certo modo, con un approccio radicale, estremo, peraltro molto lontano dalla cultura tattica della Serie A.

È evidente che le sue doti ben oltre la media potessero rivelarsi davvero solo a certe condizioni; forse tutto ciò fa di lui un giocatore non universale, non totale, forse pure meno forte di quanto ci aspettassimo. Ma la sua storia mostra come le scelte delle società, degli allenatori, possano essere e sono quasi sempre fondamentali per determinare il destino di un giocatore. Nel caso di Calhanoglu, il passo fatto dal Milan verso un gioco diverso gli ha permesso di riprendersi una dimensione che sembrava appartenergli di diritto, che sembrava appartenergli in ogni caso, e invece poteva essere reale solo in una squadra ritagliata su misura per lui. Ora che l’abbiamo capito, ora che possiamo farlo, godiamoci finalmente goderci il talento del vero Calhanoglu, ilo almeno della miglior versione che abbiamo visto finora.