Nel 2016, dopo aver compiuto una delle più grandi imprese dello sport contemporaneo, LeBron James disse che la sua più grande motivazione era «il fantasma che ha giocato a Chicago». Come se avesse compreso che, ormai, la questione non era più tra lui e Steph Curry – o qualsiasi altro avversario incontrato nel suo percorso di catarsi e redenzione, da Paul Pierce a Tim Duncan fino a Dirk Nowitzki – ma tra lui e Michael Jordan, nella misura in cui il confronto con il più grande di tutti i tempi sembrava essere diventato l’unica chiave di lettura possibile per definire la carriera di un giocatore altrettanto iconico, generazionale, trasversale. Una forzatura inevitabile di una visione, quella dei due pesi massimi al centro del quadrato, che caratterizza da sempre il racconto sportivo da parte degli americani. E quindi, in assenza di un avversario che fosse alla sua altezza nel presente, lo si era trovato nel passato, alimentando un dibattito che appare superato soprattutto in un’epoca in cui la Nba non sta più cercando un altro Jordan perché di un altro Jordan non si avverte più la necessità. Non solo dal punto di vista commerciale, ma anche da quello sociale, culturale, filosofico.
Quattro anni dopo, con il titolo vinto con i Los Angeles Lakers – un titolo che ha un peso specifico diverso da quello conquistato con i Cleveland Cavaliers – possiamo dire che LeBron James è riuscito ad andare oltre questa visione. Quindi ad andare oltre sé stesso, ancora una volta. Non è più solo una questione di numeri, di record, di titoli vinti (e persi) con tre squadre diverse, delle 10 Finals raggiunte in 17 anni di carriera: l’unicità di LeBron sta nel modo in cui ha riscritto il gioco e la percezione del gioco stesso, superando quella “narrazione dell’erede” che ha condizionato – e in alcuni casi persino alterato – le carriere di due generazioni di superstar Nba. Lo stesso Kobe Bryant, presenza naturale, ovvia e ingombrante all’interno delle celebrazioni per il diciassettesimo titolo della franchigia che ha rappresentato per vent’anni, ha dovuto convivere con l’etichetta di “nuovo Jordan” senza mai riuscire ad affrancarsene del tutto.
James, invece, è già oggi oltre questo tipo di legacy: è qualcosa di più, qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo. Tanto che raccontarlo attraverso il filtro del paragone tra epoche diverse e del confronto a tutti a costi con un giocatore a sua volta unico e irripetibile, è diventato anacronistico, superficiale, ridondante. Inoltre, ridurre la discussione a dati oggettivi di confronto, per esempio quelli numerici, sarebbe a sua volta una pratica destinata a sottostimare, a sottovalutare l’effettiva grandezza di LeBron.
Anche continuare a mettere asterischi sui suoi trionfi – nel 2012 la sua vittoria è arrivata al termine di una stagione compressa causa lockout, oggi al termine dei playoff disputati nella bolla – e giudicare ciò che fa (o non fa) sul campo, sulla base di ciò che ci aspettiamo da LeBron, vuol dire sminuire il suo impatto sulla storia del basket. Le critiche ricevute al termine di gara-5 per via del passaggio che ha permesso a Danny Green di prendersi un tiro ad altissima percentuale per la vittoria di partita e titolo, sono più o meno le stesse del 2013 quando, in gara-6 contro gli Spus, sbagliò la tripla del pareggio a 10 secondi dalla fine: solo un miracolo di Bosh a rimbalzo e l’unico tiro dal campo a bersaglio di Ray Allen permisero agli Heat di andare al supplementare e di vincere la partita e la serie nella successiva gara-7, con LBJ ovvio MVP delle Finals – a 25 punti, 11 rimbalzi e 7 assist di media. Si tratta di due situazioni opposte ma che spiegano entrambe come James continui a fare i conti con una sua proiezione ideale, che non tiene conto della distanza tra reale e percepito, del mondo che cambia, del basket che cambia.
Tutti si aspettano, anzi pretendono, che sia lui l’autore del tiro decisivo al termine di una prestazione da 40 punti, 13 rimbalzi e 7 assist? E lui, di contro, demolisce decenni di narrazioni superomistiche sulla “hero ball” e su un numero 23 che deve prendere e mettere quel tipo di conclusione, evitando di forzare in una situazione troppo complicata, affidandosi al suo miglior tiratore perimetrale per arrivare all’obiettivo – individuale e di squadra – che si era prefissato. Perché era, ed è, la soluzione migliore. Perché mai come in questo momento storico il basket è un “make and miss game”, in cui i tiri che sbagli fanno le partite e le stagioni molto più dei tiri che metti. E perché LeBron, dall’alto di una superiore comprensione del gioco e delle sue dinamiche, ha già dimostrato con i fatti che certe categorie valoriali non hanno più senso. Non oggi, non con lui, non nella Nba contemporanea.
Come recitava il gigantesco banner che occupava un’intera facciata della Quicken Loans Arena di Cleveland, We are all witnesses, siamo tutti testimoni. Di LeBron James, della sua grandezza, della sua storia che, a 36 anni da compiere il prossimo 30 dicembre, è ancora in divenire. Una storia di cui non si riesce a immaginare la fine e che è già cambiata troppe volte perché il primo a cambiare e adeguarsi è stato lui: «Pensate ai “big men” con cui ha giocato, a Ilgasukas, Drew Gooden, Chris Bosh, Kevin Love e ora Anthony Davis. Oggi essere un lungo significa trasformarsi in un giocatore perimetrale e di transizione dopo essere stato quasi esclusivamente un giocatore di post. La grandezza di LeBron e del suo QI cestistico sta anche nell’essersi fatto trovare sempre pronto a giocare con un grande interprete di un ruolo in continua evoluzione», ha detto Carlos Boozer a The Ringer. Svelando il motivo per cui siamo al cospetto del giocatore dominante per eccellenza, l’unico per cui l’espressione “spostare gli equilibri” può essere intesa nel suo significato letterale: LBJ non è solo l’all around player che ha influenzato la visione di compiti e funzioni della pallacanestro degli ultimi vent’anni, ma è soprattutto il vincente per antonomasia, quello che cambia la cultura, le prospettive e l’attitudine alla vittoria di una squadra e di una franchigia.
Non è questione di vincere da solo – nessuno può, men che meno nello sport professionistico ad alto livello – ma di farlo in un sistema in cui lui si trova a centro di tutto, in cui è l’elemento in grado di migliorarsi come di migliorare i compagni e l’intera organizzazione. LeBron oltre a vincere, fa vincere: i Miami Heat dei “Big Three”, i Cavaliers di una Cleveland che attendeva un titolo da 52 anni, i Los Angeles Lakers alle prese con la faticosa ricostruzione del post-Bryant. Contesti diversi, squadre diverse, accomunate dalla presenza della stella che basta a sé stessa e che brilla di luce propria a prescindere dal punto in cui si guarda il cielo: Jordan ha reso immortali i Bulls, Bryant ha rinverdito i fasti dello “showtime” dei Lakers, James ha costruito la sua leggenda indipendentemente dalla casacca indossata, alimentando quell’idea di “larger than life” nel bene e nel male e che porta a dire che a vincere o perdere di volta in volta non siano gli Heat, i Cavaliers o i Lakers, ma lui. O, almeno, prima lui e poi gli altri, nell’ennesima visione estremizzata di un atleta troppo più forte, troppo più grande, troppo più tutto, perché le valutazioni che lo riguardano siano ricondotte in una logica univoca e che valga per tutti.
Nel 2018, dopo il secco 4-0 in finale rimediato dai Golden State Warriors al netto dei numeri senza senso ottenuti giocando con una mano fratturata tre partite su quattro, disse che «la gente pensa che basti scendere in campo e che, siccome sei il più grosso, il più forte e più veloce di tutti, tu debba guidare gli altri ogni singola volta, schiacciare in ogni singola azione, senza accusare mai la fatica».
Quel giorno nacque il LeBron James di oggi: il LeBron James che ha cambiato radicalmente il proprio approccio al gioco perché libero dal peso di dover dimostrare qualcosa a qualcuno, a suo agio in una fase della carriera in cui è chiamato a gestire le proprie risorse fisiche e tecniche, perfettamente consapevole di come viene percepito, di cosa ci si aspetta da lui e di come verrà comunque messo in discussione nonostante tutto; il LeBron James che ha vinto il suo quarto titolo nella gara numero 260 ai playoff (record di ogni epoca), celebrata con la ventottesima tripla doppia in una serie finale; il LeBron James MVP delle Finals a quasi 29,8 punti, 11,8 ribalzi e 8,5 assist di media; il LeBron James cui, adesso, non resta che il confronto con sé stesso e la sua storia; il LeBron James che ha smesso di dare la caccia al fantasma che ha giocato a Chicago prima di lui, diventando a sua volta il fantasma di chi giocherà dopo di lui; il LeBron James superiore a tutti e a tutto. Anche al dibattito sul più grande di sempre.